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Abruzzo: nessun pericolo!

a cura di Pietro Orsatti e Sergio Nazzaro.

Fotografie di Marco D’Antonio, con un testo di Angelo Venti

Editore: Socialmente Collana Arkè  uscita: novembre 2009

3.32, 6 aprile 2009: il terremoto. Morti, feriti, dolore, commozione, indignazione. Le tende, gli aiuti, la disperazione, le macerie. Uno sguardo attraverso le macerie, nelle crepe, silenzioso. Raccontare, evitando il sensazionalismo. Fissare nelle immagini le emozioni. Indagare senza le parole, perchè ciò che si vede è testimonianza ineluttabile. E mentre le accuse e le giustificazioni rimbalzano come un pallone in un campo di calcio, quattro giornalisti e fotoreporter vogliono fissare, con il respiro  impastato di polvere, i giorni in cui l’Abruzzo “è stato terremotato”. Nessuna accondiscenza al generale cordoglio che non conosce mai i nomi dei responsabili, ma come lo scatto di una macchina fotografica, la mano è ferma nel ricordare, nel testimoniare e nel denunciare. Un’immagine chiara e netta, che non accetta sfocature in cui tutto si confonde e si mischia. Un angolo visuale diverso, altro, vero. Un viaggio senza telecamere e microfoni che pongono domande oscene, ma taccuini e macchine fotografiche, mentre le scarpe si colorano di fango. Perchè il tempo passa, ma non c’è nessuna voglia di dimenticare. E mai ci sarà. Fino a che anche l’ultimo mattone abbia raccontato la sua storia.

Terrae Motus parte prima: scala H

A volte basta un attimo per scordare una vita ma a volte non basta una vita per scordare un attimo.
(Jim Morrison)

“Ma perché lo hai sentito anche tu?”
Vi sono alcune prerogative nell’essere meridionali, oltre la disoccupazione, il sole, la pizza, e la camorra. I terremoti li sentiamo solo noi. Una convivenza difficile ma innegabile. Prima o poi ci sarà. Un evento legato all’imprescindibile fatalità che si sposa allegramente con il tiriamo a campare meridionale. Fatalità e destino. Se si muove la terra in Italia, i meridionali lo avvertono prima di tutti. Lo hanno nel sangue. Lo riconoscono anche nel frastuono, nel traffico e nel gridare quotidiano.
“Secondo te? Certo che l’ho sentito”
La telefonata con mia madre ha quasi del surreale.
“Ma tu stai a Roma!”
“Beh, prima si pensava che fosse qui a Roma l’epicentro, invece è in Abruzzo”
“Noi lo abbiamo sentito forte”
“Qui anche di più, l’Abruzzo è più vicino a Roma che alla Campania”
“Eh già, hai ragione”. La voce di mamma si fa sconsolata.

 

Sentire il terremoto. Non lo si avverte. Lo si sente, quasi che parlasse, anzi gridasse. Quasi che bussi con forza nella notte, alla porta, e ti butta giù dal letto senza tante cortesie.
Infatti, non ti avverte il terremoto. Giunge all’improvviso.
“Tu che stai al quinto piano nella tua scala lo avrai sentito forte proprio allora”
“Mai quanto quelli all’Aquila”
“Qui siamo scesi giù, come sempre e abbiamo aspettato qualche ora”
“E poi cosa avete fatto?”
“Siamo tornati a dormire, è sempre stato così”.
Sento la notte passata sul divano. Essere meridionale non solo ti da la prerogativa del terremoto, ma ti insegna che dopo la prima, arriva anche la seconda scossa e devi stare più sveglio di prima.
Cosa ho fatto appena ho sentito il terremoto? Mi è venuto da ridere.
A dirla così sembra quasi un’offesa. Invece è la verità. Nel pieno del sonno ho cominciato a sentire strani rumori in casa. I ladri. Il palazzo è popolare, non c’è nulla da rubare, meno che meno a casa mia. Troppi rumori. La Banda Bassotti al completo in casa.
Impossibile.
Ma allora è, cazzo, il terremoto. Accendo la luce. Non riesco a muovermi. La casa oscilla. La mente ragiona velocemente, ma il corpo non sembra seguire le istruzioni: scappare. Rido.
“E perché ti è venuto da ridere?”
“Il nervosismo”
“Hai avuto paura?”
“Non proprio. Vivo a Roma, dovrei dimenticarmi di cosa significa la parola terremoto. E invece, quando ho visto e sentito tremare tutta casa mi sembrava di essere tornato indietro a tanti anni fa. Un altro terremoto. Da non crederci”.
“Ti ricordi quando eravamo in chiesa?”
“E come me lo posso scordare?”
Da ragazzino, in chiesa con mia madre. Il terremoto. Tutto si muove, le campane suonano. Ma non a festa. La gente grida, tutti a correre verso l’uscita. Appena fuori i palazzi Cirio, costruiti dalla famosa fabbrica dei pomodori. Oscillano. Si muovono proprio. Non è un effetto ottico, sembra che quasi si toccano. Poi all’improvviso tutto si ferma. E’ finito.
“Anche quella volta a casa”
“Già, il tavolo di granito”
Un altro terremoto ancora. Mezzogiorno. Ultimo piano del palazzo di casa. Si sta apparecchiando la tavola. Mio padre deve ancora tornare da scuola. Il tavolo della cucina è pesante. Una tavola di granito. Compatta. Per spostarla prima e dopo pranzo ci vogliono sempre due persone. Si muove, traballa, da sola. La casa ondeggia. Le grida. Tutte le persone del palazzo e delle case vicine che pronunciano la parola di allarme: il terremoto, correte.
“Quanti ne abbiamo sentiti, quattro, cinque?”
“Credo di sì, forse cinque”
“Ti passo tuo padre”.
La notte del terremoto. Mentre la televisione tace, internet comincia a lanciare le prime notizie. Allora è vero. C’è stato per davvero. Non è stato un incubo. Le luci nel quartiere si accendono. Una dopo l’altra. Apro la finestra del balcone. Con cautela. E’ il posto dove non stare in questo momento. Ma qualche altro temerario si affaccia. Qualche voce si insegue.
“Lo avete sentito”
“E’ stato forte”
“Ma dove è stato?”
Il terremoto, sussurra, grida forte. Lo si sente.
Mi affaccio sul pianerottolo della mia scala. Scala H. Qualche porta si apre. L’indecisione del momento. Si scende, o è un atteggiamento esagerato? Quella decisione, di un istante, che il giorno dopo segnerà a l’Aquila la vita o la morte di molti. Quella frazione di secondo, in cui una decisione, che forse sembra ridicola, ti permette di raccontarla il giorno dopo. Come dormire vestiti, con le scarpe ai piedi. Per un attimo, per un evento naturale, ci si riscopre comunità. Come su un autobus o un tram cittadino, in cui tutti stanno in silenzio. Un guasto improvviso. Tutti in strada. Tutti insieme a cercare una soluzione. Ma a volte si va via, perché ognuno deve tornare a casa propria. Nella notte del terremoto mi rendo conto di essere solo. Solo a casa. Nessuno con cui condividere l’immediato. Eppure mi sento in buona compagnia, con tutti i vicini di casa di cui non conosco neanche un cognome o un nome. Mi siedo sul divano. Il sonno è passato, le sigarette ci sono, sempre troppo poche. Le informazioni cominciano a fluire. Rivedo il momento quando sono saltato giù dal letto. Quel senso di vuoto, di compressione che avvolge la testa mentre le mura si agitano, lievemente. Ma con decisione. Il terremoto colpisce il fisico, lo immobilizza. Sposta il baricentro della nostra gravità quotidiana. I primi momenti. Immobile, bloccato. Poi, quasi verso la fine vado sotto l’uscio della porta. Lezione fondamentale. Il posto sicuro. Ma con tutti i palazzinari di cui è piena l’Italia, neanche quel posto mi sembra tanto sicuro. La telefonata del mattino con mio padre mi chiarisce alcuni punti.
“A che piano stai?”
“Sempre al quinto, non ti ricordi?”
“Finché scendi, non c’è nulla da fare”
“Consolante”
“E’ la verità”
“Eppure hai ragione”.
“Mi sono messo sotto l’uscio della porta”
“Tanto l’ascensore neanche a pensarci”
“Infatti, che si può fare”
“Nulla, quando c’è il terremoto siamo nelle mani del destino”
“Beh non è consolante papà sentire questa cosa”
“Ma è la verità, tu stai al quinto piano, neanche a pensarci a scendere a piedi per le scale, puoi solo aspettare sotto l’uscio della porta”.
“Aspetto cosa, di morire?”
“Si, non si può fare altro”
La risposta mi gela il sangue. Semplice, diretta, senza abbellimenti. Non è una celebrazione, non ci sono telecamere. Solitamente la verità è brutale, perché non ha il cerone delle grandi occasioni. Osservo l’uscio della porta. Mi devo fidare di chi lo ha costruito, non posso fare altro. Se quello si sta godendo il sole ai Caraibi, perché ha risparmiato sui materiali, io muoio e lui gode. Al limite gli cade un cocco sulla testa.
Mio padre riprende la conversazione: “Bello il terremoto?”
“Non proprio”
“E invece ci ricorda di come siamo piccoli e insignificanti”.
“Questo me lo ricordo tutti i giorni”
“Ma non tutti lo ricordano”
“Infatti”
“Poi in Italia siamo messi anche peggio”
“Almeno in Svizzera non c’erano terremoti”
“E le case sapevano costruirle”
“Mi spieghi una cosa?”
“Dimmi”
“Qual è la differenza tra scala Richter e Mercalli”
“Ancora a questo stai?”
“Beh ci si informa soltanto quando succede qualcosa, come fanno tutti”
“E così poi tutti a domandarsi come costruire le case, solo quando cadono a pezzi”
“La differenza allora?”
“La scala Richter misura l’energia che un terremoto genera. La scala Mercalli i danni che produce”
“E perché noi italiani ci siamo applicati a fare una scala che indichi i danni, piuttosto che una maggiore precisione scientifica?”
Cade la linea. Per un attimo mi immagino la mia vita tra diverse scale, la mia scala l’H, la Mercalli e la Richter. Calcoliamo i danni, non importa l’energia che si sprigiona, quella reale. Noi calcoliamo i danni. Non importa che sia uno tsunami, o una pioggia di stagione, se allaga il costruito povero, se inonda le strade è una tragedia. Non una riflessione sul ciò che si poteva evitare. Che sarà sempre per la prossima volta

Terrae Motus parte seconda: scala Mercalli

Chi sorveglierà i sorveglianti? (Giovenale, VI Satira)

La parola alle case:
“Ci guardano con sospetto. A volte con odio. Paura. Ci stanno giudicando come se fossimo degli assassini, come se non ce ne importasse nulla. Non si avvicinano però. Non ci vengono a domandare nulla. Ci sfiorano. Ma non sempre. A qualcuna hanno scavato nella pancia. E non ci siamo mosse. Abbiamo lasciato che rovistassero. Non una parola, un lamento. Non siamo spettrali, anche se oggi fa freddo e soffia un vento gelido. E’ la primavera dell’Abruzzo. La primavera delle montagne che sono e rimangono dure. Tutti hanno parlato con tutti. Nessuno ci ha rivolto una parola, un saluto. Soltanto i nostri proprietari. Loro si ci guardano con la malinconia negli occhi. Quella maledetta notte abbiamo provato a resistere. Cosa credete mai, che non avevamo voglia di proteggervi? Che potevamo lasciarsi andare come se nulla fosse? No, vi sbagliate. Il tremore lo abbiamo sentito prima di voi, qualche attimo prima di voi, nelle nostre fondamenta. Cattivo, diretto, bruciante. Un tremore sconosciuto anche a noi. Credeteci, ci abbiamo provato. Abbiamo cercato con tutte le nostre forze di non lasciarci andare, anche se cominciavamo a sentire lo spezzarsi delle ossa, che a noi sono fatte di ferro e cemento. Volevamo gridare: scappate, svegliatevi, non ce la facciamo a reggere per molto. Non siamo riusciti a pronunciare una parola. Che strano. Ti frequenti ogni giorno, si appoggiano a noi. Ci ornano, ci accarezzano. Eppure non siamo riusciti a svegliarli in tempo. E’ stato così dovunque. Hai visto Fossa? Non ti deve spaventare. Stanno tutte insieme sulla montagna. Cupe, severe, abbandonate. Non deve guardarli con gli occhi di chi viene da fuori. Osservaci con gli occhi degli anziani. I nostri proprietari. Loro ci  consolano da lontano con lo sguardo. Loro sono soli. Noi siamo soli. E finché saremo separati, non ci sarà consolazione. Non possono avvicinarsi. Hanno detto che non devono più fidarsi di noi. Come si fa a dire una cosa così? Cosa ne potete sapere del dolore, della gioia, delle preoccupazioni che abbiamo condiviso per anni e anni, dalla mattina alla sera, e tutte le notti di tutte le stagioni? Hai visto ad Onna? Quelle poche di noi che sono rimaste in piedi? Quelle case sembrano avere lo sguardo basso, dispiaciuto di essere ancora in vita. Non devono fare così. Le più deboli di noi siamo venute giù, e abbiamo ucciso chi dovevamo proteggere. I tetti battevano come martelli impazziti. Tremavamo dal profondo, e i tetti a battere su di noi. Non ce l’abbiamo fatta. Abbiamo fallito. Voi a giudicare, a dividerci tra buoni e cattivi. Siamo solo case, il nostro dovere è difendervi. Lo senti questo freddo primaverile? Non è nulla in confronto all’inverno. La nostra è una disperazione silenziosa. Muta. Abbiamo visto i piccoli, i giovani, le belle speranze di famiglia partire, andare lontano a cercare fortuna. La fortuna l’hanno trovata. Ed oggi, anche le nostre macerie. Lo sguardo pieno di lacrime con cui ci fissano ci congela. Anche se siamo solo macerie. Ormai fredde. Loro erano lontani. Toccava a noi prenderci cura di chi rimaneva. E rimangono sempre gli anziani. A Villa Sant’Angelo abbiamo sentito i vigili del fuoco dire che eravamo quelle che dovevano cadere. Che non c’era nulla da fare. Lo senti questo odore di vecchio, di tufo, di carta da parati? Qualcuno lo chiama l’odore della nonna. Quell’odore di oggetti antichi mischiati ai ricordi, ai vestiti che si cambiano poche volte, perché bisogna risparmiare, ma sono sempre puliti. Vecchi fornelli, bambole di pezza, tegami di rame. Siamo confusi noi, gli oggetti e voi in una sola massa di detriti. Alcune di noi sono completamente sbattute con la faccia a terra, altre sono piegate in modo innaturale. Ci tengono a distanza con i nastri rossi e bianchi, gialli, qualcuno di voi è a guardia, per impedire che vi avviciniate troppo. Tra non molto arriveranno le ruspe. Salveranno solo i feriti lievi. Per la maggior parte di noi ci saranno i mezzi meccanici a triturarci definitivamente. Che lo facciano con pietà, non con odio. Non possono vendicare la propria rabbia su di noi. Non è colpa nostra. Chissà, se ci sarà un poco di pietà, il camion che è venuto a prenderci ci poterà su dell’altra terra. E diventeremo fondamenta per nuove case. Forse qualcuno ci prenderà tutta e ci mischierà al cemento e diventeremo di nuovo fondamenta. Quelli mani che ci mischieranno, sanno che noi faremo il possibile per non venire giù di nuovo. Ci abbiamo sempre provato e lo faremo ancora”.

Terrae Motus parte terza: scala Richter

Alla disgrazia uno non si può abituare, mi creda, perché sempre abbiamo l’illusione che quella che stiamo sopportando debba essere l’ultima, sebbene in seguito, con l’andare del tempo, incominciamo a persuaderci – e con quanta tristezza! – che il peggio deve ancora venire.
(Camillo Cela)

“Andiamo in Abruzzo?”
“Quando?”
“Lunedì di pasquetta”
“Una settimana dopo il terremoto …va bene”.
Metto giù il telefono.
Un certo giornalismo lavora nei giorni di vacanza, perché gli altri giorni deve lavorare per pagarsi l’affitto. Anche se poi non pagano mai gli articoli scritti nei giorni di vacanza. Si parte quando, molti altri vanno al mare. Direzione l’Aquila. L’ultimo autogrill prima di entrare in città. Stracolmo di beni alimentari, con prezzi altissimi. Anche più cari dei solitamente esosi autogrill. In televisione si fa a gara per mandare beni di prima necessità: come mai?
Basterebbe andare all’autogrill, o le emergenze hanno confini delimitati?
In ogni tragedia qualcuno guadagna. Il gestore dell’autogrill con quella sua faccia finta dispiaciuta conta il denaro in più dal turismo dell’emergenza. Non sorride, sarebbe sconveniente, non parla, sarebbe ipocrita nel declamare il suo cordoglio: vende. Senza rancore. Cosi come hanno venduto i palazzinari, bastardi. Senza rancore, contando il denaro. Entrando a l’Aquila anche un bambino si accorge che il giocattolo casa è venuto giù, senza opporre resistenza. Si sono scollate le mura, si sono terremotate le case, e tutto è venuto giù, o è rimasto disordinatamente in piedi.
Palazzinari.
Io li conosco. Case su case distrutte e danneggiate, ma le commissioni sono state tutte intascate. Più è grande il bene, più ci si guadagna dalla sua vendita. Le case, nel paese che ama il mattone alla follia, ingrassa moltissima gente. Eppure pochi si fidano degli agenti immobiliari. Ancora meno dei palazzinari. E fanno bene. Una casa non è mai finita per davvero. Manca l’intonaco, l’androne da finire, ascensore da provare, il marmo da lucidare. Manca sempre qualcosa. Osservo l’Aquila e immagino il giardino in cui i palazzinari si stanno godendo un prosecco nel lunedì di pasquetta, dopo un abbondante pranzo. A loro non gliene fotte nulla. Commissioni su commissioni vengono pagate per una casa. Altro che il famoso 3%. Si arriva a ben oltre il 30%. Tra una tecnica immobiliare e l’altra. Poi, mentre si costruisce si risparmia sul cemento, sul mattone, sul ferro, e si continua ad intascare denaro. Una casa rende felici e ricchi tutti, meno l’acquirente della casa. Che ci muore dentro, quando arriva il terremoto. Conosco i palazzinari. Arroganti, ma simpatici. Quando devono vendervi la casa tanto sperata, beh, recitano la formula di convincimento anche la notte, tendono tutto il loro essere solo al vostro assegno, alla firma, che vi incastra a vita. Una casa è fatta di mille leggi e proroghe, a dirla breve impicci, dove loro i palazzinari sguazzano come pesci nell’oceano. Sanno tutto, conoscono tutti, e se qualcosa non va, pagano per aggiustarla, ma non sarà mai la mattonella fuori posto. E perché? Perché se vendo tre palazzine insieme, una palazzina è mezza è il guadagno del palazzinaro. Eh già, perciò tutti sono così assetati di mattone. Mi ripago con la vendita di una palazzina e mezza tutto il lavoro e ci guadagno, tanto. La sicurezza? Già è scocciante quella per gli operai, vuoi mettere che devo stare a pensare anche a quella dei futuri inquilini? Basta che regge la struttura per i primi anni, poi Dio vede e terremota. Non lo si può scrivere in un articolo serio tutto questo. Non solo non pagano gli editori, ma vogliono anche che si scriva quello che dicono loro, assomigliano ai palazzinari ma si sentono superiori. I palazzinari, dicevamo. Sono simpatici, sembrano tutte orecchie ai vostri problemi e hanno la vostra stessa vita. Ogni volta che si parla con un palazzinaro ha un figlio che studia lontano, una suocera che sta poco bene, un macchina che non funziona, villeggiate nella stessa località di mare ma non lo sapevate, usate anche lo stesso profumo e forse anche lo stesso supermercato. Fanno le vostre stesse cose, sono uguali a voi, perciò vi potete fidare e dovete firmare. Simili a noi, sorridenti, sempre presenti prima della vendita, dopo no. I palazzinari sono bastardi, sanno quanto costano i mattoni, la sabbia, il cemento, gli operai. Odiano i sindacati, il costo del lavoro e odiano gli immigrati. Però vogliono solo rumeni, polacchi sui cantieri, funzionano meglio, li paghi al nero, e non fanno storie. Italiani veri, come voi. Se firmate il rogito, sono i vostri migliori amici, se non lo firmate vi bestemmiano alle spalle. Soldi non incassati. Ma la casa non è come quella promessa! Embè, se vuoi la casa come quella dei tuoi sogni devi pagare. Ma ho pagato. Non basta mai per i palazzinari. Loro si costruiscono da soli le case. E se le comprano, sanno come comprarle, non pagando le commissioni. L’Aquila. Già si sente nell’aria il dito puntato contro i costruttori di case. Ma chi sono, dove sono? I palazzinari hanno mille e una società. Che quando parlano con la gente, li impressionano: ho trenta società. Ognuna di questa serve semplicemente a far quadrare i conti, a chiuderla se ci sono ammanchi e via dicendo. Non esistono come società. Quando crolla una casa è una bel labirinto in tante scatole cinesi. E, forse, tra quelle società, c’è anche la società che affitta la barca del palazzinaro, comprata con i soldi degli inquilini. I quali inquilini, anche se morti e sepolti sotto le macerie, sanno che i loro soldi navigano nel bel mare blu italiano. E mentre la barca è ferma in porto ci si prende anche le sovvenzioni dello Stato per migliorare le attività marittime, o la si affitta per ventimila euro e passa alla settimana. Un palazzinaro guadagna, sempre. Poi tutti ci sorprendiamo. Come a l’Aquila. Ma i palazzinari vengono dal basso, hanno fame. Con le unghia grattano il successo e la scala sociale. Cosa saranno mai le milioni di leggi per costruire una casa, se non un fastidio? Noi non comprendiamo, siamo pigri, loro hanno fame e si mangiano anche la nostra vita.
L’Aquila, militari dovunque. Carabinieri dovunque, polizia dovunque. Ma non cercano i palazzinari. Neanche i morti, ormai li hanno trovati tutti. Non mi sorprendo, non mi stupisco. E’ toccato a loro entrare nel tritacarne della politica, dei suoi giochi, dei nuovi palazzinari, dei soldi che giungeranno dal governo centrale e nessuno saprà come saranno utilizzati. Non so se è peggiore il terremoto o la ricostruzione. Tutti si aggirano per l’Aquila, ci sono tutti ma proprio tutti, anche i grandi della terra, i grandi del G8.
Tantissime divise, ma nessuno ha ancora catturato i palazzinari. Non hanno neanche catturato quelli che qualche giorno prima hanno scritto: Abruzzo, nessun pericolo!

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