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Dubai Confidential: Il Riformista

 

Recensione di Francesco Longo*

Riformista Recensione 

Una bolla di sapone fatta di Corano e vodka.
Come “Frankenstein” di Mary Shelley, gli arabi si sono voluti sostituire al Creatore. Un’utopia multiculturale annunciata da tre libri.

Che Dubai fosse simile ad una bolla di sapone era sotto agli occhi di tutti. Dubai e la bolla di sapone condividono la stessa mirabile lucentezza, la capacità di catturare la luce e di rifletterla, e il potere segreto di ritrarre il mondo in piccolo, deformato. Ma la bolla effimera dei bambini e il gioiello degli Emirati Arabi hanno in comune anche la tragica vendetta della realtà: la loro scomparsa ricorda che i sogni si infrangono sempre, appena qualcuno apre gli occhi. Da quando è arrivata la notizia che la Dubai World, una holding che controlla le società dell’emirato, era schiacciata da un debito di 59 miliardi di dollari il mondo ha tremato.

Quando Dubai inciampa, cascano Tokyo e Hong Kong. Quando Dubai World chiede, come ha fatto mercoledì scorso, un congelamento del pagamento degli interessi, gli investitori impallidiscono a Francoforte a Parigi e a Londra. Ma il motivo di tale contraccolpo, l’ondata negativa che è partita da Dubai e ha investito i mercati europei e quelli asiatici è dovuta anche alla potenza simbolica di cui questo luogo si è caricato negli ultimi anni. Quando nel mondo si respirava la crisi, a Dubai si innalzavano grattacieli a specchio. Quando in Europa montava la disoccupazione, a Dubai si inaugurava l’Atlantis con il più grande party della storia (con Robert De Niro, Janet Jackson, Denzel Washington). Le cronache dei giornali di tutto il mondo parlarono di una notte fatta di aragoste e champagne. Lo spettacolo dei fuochi d’artificio era visibile dallo spazio. Allora, in Occidente, le società che non venivano assorbite dichiaravano fallimento e recessione era l’unica parola più pronunciata di crisi. Dubai, in questi ultimi anni, è stato il faro acceso per dare speranza che la crisi non fosse mondiale.

«Bisogna sognare in grande per ottenere un grande risultato», disse all’epoca il progettista della festa più costosa della storia. Gli Emirati Arabi, in questi anni, si sono distinti in tutto. Non c’è giorno in cui non si legga che Abu Dhabi ha comprato un torneo di tennis, che a Doha si apre un’università americana, che a Dubai si sta innalzando la torre più alta del mondo. I Paesi del Golfo hanno attirato gli occhi di tutto il mondo perché qui sono in scena i conflitti che tutto il mondo sta vivendo. Qui si può monitorare il flusso dell’economia internazionale, la speculazione finanziaria del mattone; qui si cercano modelli per integrare l’immigrazione di massa con le élite di pochi sceicchi e qui si sperimenta (e naufraga?) un modello di possibile integrazione tra Occidente e Islam: far convivere il turbo capitalismo con il Corano. Le tuniche bianche con la vodka. Dubai è stato il paradiso degli architetti e degli amanti dello shopping dei grandi marchi. Ma soprattutto, in mezzo ai rigurgiti del fondamentalismo religioso qui si è tentato di sostituirsi a Madre Natura.

Dubai racconta la stessa storia del Frankenstein di Mary Shelley. Qui si è fatto col territorio quello che il dottor Frankenstein tentò con l’essere umano. Qui si sono messe le mani (un quarto delle gru del mondo) per cambiare la geografia. Si sono costruite enormi isole artificiali dove prima c’era il mare. Si è costruita una metropoli dove prima vivevano solo sabbia e scorpioni. Nella fornace mediorientale la gente scia negli snow park. E come sempre, quando l’uomo si sostituisce al creatore, la storia finisce male, ce lo insegnano tutte le parabole che vanno da Adamo ed Eva fino al Golem di Gustav Meyrink (1915), e oltre.

Dubai non è una grande Las Vegas e nemmeno Disneyland. Non sono i numeri a differenziarla dalle altre metropoli che crescono, ma la sfacciata superbia di chi vuole giocare a fare il Creatore. È per questa sua assoluta, utopica diversità dalle altre metropoli, che molti hanno cercato di raccontarla. In Italia sono arrivati almeno tre libri che hanno cercato di spiare in questa feritoia del deserto per leggerci il futuro. Il primo è stato un saggio dell’americano Gorge Saunders intitolato La nuova Mecca (contenuto nel libro Il megafono spento, minimumfax) in cui l’autore raccontava lo stupore e la meraviglia dell’opulenza di Dubai. Un reportage che restituisce l’incanto del luogo e la sua straordinarietà. Un altro tentativo di raccontare Dubai è stato intrapreso da Walter Siti, nel suo libro Il canto del diavolo (Rizzoli) che più che raccontare il luogo registrava però lo choc culturale di uno scrittore svogliato e non interessato a capire un universo troppo complesso e inafferrabile.

In questi giorni è in libreria il testo di Sergio Nazzaro che si intitola Dubai Confidential (Elliot edizioni) e che finalmente racconta la città attraverso una vera e propria narrazione romanzesca (per descrivere realisticamente una città finta serviva curiosità e un po’ di fiction). Questo libro è uscito nel momento giusto dato che tratta proprio degli aspetti economici della speculazione immobiliare legata a Dubai: «La gente non lavora, fa affari. Non vendono, commerciano. E sono i migliori del mondo. Che siano emiratini, indiani o pakistani, loro commerciano. Prendono soldi sulle transazioni». Nazzaro mette in scena un personaggio che si infila in questa società e ne resta attratto e incastrato: «In un dedalo di vicoli cominciavo a vedere il volto della metropoli del futuro. Colori accesi ovunque, commessi indaffarati a servire le persone, profumi orientali, statue di divinità sconosciute appese ai muri». Rispetto agli altri due testi, in Dubai Confidential si respira l’aria tumultuosa di una città vitale e folle e che cresce vertiginosamente. Si narra la “corsa all’oro” dei primi investimenti («il segreto è arrivare prima») e si insinua il dubbio sul suo futuro: «Tutti vogliono sapere la stessa cosa. Il destino dei propri investimenti». Perché la regola è sempre la stessa: «Negli investimenti qualcuno deve rimanere col cerino in mano. Quello che nessuno afferra è che ci siamo rimasti tutti». Il protagonista, tra spacciatori, prostitute minorenni che gli gironzolano nelle camere degli alberghi e Land Rover bianche, si dispera.

Adesso le banche che hanno prestato i soldi per costruire il Paradiso Terrestre sono impietrite. Adesso la crisi è arrivata. Si parla di “effetto Dubai” e non si sa cosa succederà. Le gru tengono le braccia allargate, sospese nel vuoto. La paura è che la crisi possa dilagare nei paesi del Golfo. Ma chi conosce bene l’area sa che solo Dubai ha mangiato dall’albero del bene e del male. A Doha investono nella cultura, nella formazione dei giovani e hanno il gas. Ad Abu Dhabi hanno il petrolio (un serbatoio che contiene il 9% delle riserve mondiali del greggio). Dubai è più apocalittica del calendario dei Maya. Migliaia di auto sono abbandonate, i cantieri sono depositi fantasma, i lavoratori lasciano la città, gli immigrati riprendono il volo per i paesi d’origine. Le inaugurazioni slittano. Ogni volta che c’è un Paradiso Terrestre c’è sempre qualcuno che esagera e arriva una sciagura. E non c’è Torre di Babele che non faccia sempre la stessa fine: crac. Qui si sperimenta (e naufraga?) un modello di possibile integrazione tra Occidente e Islam: far convivere le tuniche bianche con l’alcol.

*Francesco Longo, scrittore, ha pubblicato “2005 dopo Cristo” (Einaudi), con Cristiano de Majo “Vita di Isaia Carter” (Laterza). Il suo ultimo libro è “Il mare di pietra Eolie o i 7 luoghi dello spirito (Laterza)

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