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Io, per fortuna c’ho la camorra: l’Unità

 

REPORTAGE Il viaggio di Sergio Nazzaro nella terra martoriata del la Campania in «Io, per fortuna c’ho la camorra» Dall’inviato nel la guerra del golfo (di Napoli)

di Michele De Mieri

Sergio Nazzaro è un grande inviato, con pochissimi mezzi alle spalle, dentro quella che lui stesso chiama la «guerra del golfo». Dopo il successo per molti versi inaspettato del Gomorra di Saviano – ricordiamo che partì con cinquemila copie e ora, non solo ha toccato il milione, ma è anche entrato nei cento titoli dell’anno 2007 del New York Times – il rischio che corrono tutti gli altri libri che raccontano il tentativo, spesso impossibile e letale, di convivere con la camorra è quello di rimanere dei «satelliti», dei compendi di Gomorra. Sarebbe davvero un peccato, specialmente per un lavoro come Io, per fortuna c’ho la camorra, libro insieme meticoloso nell’analisi del cancro camorristico e umanissimo nello sguardo con cui si avvicina agli eroi sconosciuti che pure in quella terra di soprusi tentano una loro dignitosa esistenza. Quello che Sergio Nazzaro mette insieme è davvero un accorato e disperato atto d’accusa verso chi ignora, fa finta di niente, dimentica il disastro antropologico che stringe, più forte che altrove, tutta l’area che comprende le province di Napoli e di Caserta: quei nomi ricorrenti, ma paradossalmente facili all’oblio se la strage non è spettacolare, efferata, disumana, ignorata. Come quando muore un solo uomo, uno come Federico Del Prete che aveva fondato un sindacato degli ambulanti per opporsi al pizzo dei clan. «Ma gli Italiani lo sanno che esistiamo? Lo sanno che ci sono posti come Mondragone, Casal di Principe, Villaggio Coppola, Frattamaggiore? Devi scrivere per farlo sapere», questo urla l’amico a Nazzaro nei pressi del Palazzo dei Congressi dell’Eur di Roma. Dalla capitale quella terra racchiusa dopo il Garigliano gli deve sembrare lontana, dimenticata e sofferente, così come agli irredentisti e ai patrioti italiani appariva l’Italia da Londra, da Parigi, dalla Svizzera. Non c’è stato nessun risorgimento, né rinascimento in Campania. Si è confusa qualche buona iniziativa, qualche buon arredo artistico, con una rinascita delle coscienze e con una duratura presenza dello Stato. Ma entrambe ancora non ci sono state. Verso la fine della folle ventiquattrore in terra di camorra, come recita il sottotitolo di Nazzaro, un avvocato, in una delle pagine del libro più disperate sull’analisi dell’eterna emergenza sud, dice: «Pensaci bene, se tutto quello che dicono è vero sul Sud, tutto quello che dicono sulla Camorra e come affama il Sud, beh allora è meglio pensare che non esiste. Il pensiero contrario farebbe impazzire. Significa che ci hanno abbandonato da sempre. Già, i camorristi contro cui si punta il dito fanno il loro lavoro. Gli altri fanno gli assenteisti». La forza di questo racconto denso e senza speranza sta nel dar voce al grido di rabbia di alcuni, al grido di dolore di altri, alla testimonianza di parenti o amici di gentili eroi locali sempre finiti uccisi, più che nella denuncia del «sistema» come nuova rete economica, cancro finanziario che manda i suoi emissari ad acquistare pezzi di nord, italiano, tedesco, scozzese… Si sente gemere la gente di questo sud prigioniero, dove si vive in strade che ricordano gli incubi peggiori di Beirut o di Falluja anche se hanno nomi che evocano bellezze antiche ormai inesistenti: Baia Domizia, Baia Felice. Si muore di morte sul lavoro, ovviamente al nero, in terra di Camorra ancor più che per i colpi delle automatiche impugnate con spavalderia adolescenziale dai killer dei tanti clan in competizione, si muore nel corpo avvelenati dai rifiuti tossici, si muore – salvandosi il corpo – ogni volta che qualcuno parte, scappa – verso Roma o più lontano – con questa terra maledetta nel cuore. Come accadde per Saviano, che allora non aveva dietro né la protezione della polizia né la forza di risonanza delle copertine de L’espresso, anche Sergio Nazzaro porta avanti la sua lotta su fogli giornalistici più o meno sconosciuti e che pagano venti trenta euro un articolo che può costar caro, molto caro.

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