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La poesia di Gyorgy Petri

La poesia di Gyorgy Petri

La figura umana e la produzione poetica di Petri, una delle principali voci del dissenso durante il regime del partito unico comunista, testimoniano il percorso intellettuale, sociale, letterario, politico di uno scrittore dell’Est Europa.

“E poi il suicidio,sport nazionale, vizio ungherese per eccellenza, andava rispettato” (Tibor Fischer)

La citazione iniziale, per quanto può apparire strana, non è fuori luogo per introdurre un discorso relativo a uno dei personaggi fondamentali della poesia di Petri: Sára Kepes. Sára, non è solo un personaggio fondamentale della poesia, ma anche del dolore del poeta. Petri si confronta con questa figura femminile – con la quale aveva vissuto in gioventù una tormentata storia d’amore sfociata nel suicidio di lei – già dalle prime poesie fino a quelle più recenti, indizio di un confronto continuo, segnato da un tormento interiore che cerca una pacificazione forse improbabile. La figura di Sára è rilevante anche perché diventa il simbolo dell’incapacità di coltivare rapporti, di una comunicazione che vada al di là della propria solitudine.

Ma prima di vedere in dettaglio questi aspetti, cerchiamo di scrutare anche quale valenza e incidenza ha il suicidio in Ungheria. Questo gesto sembra avere i connotati di un modus vivendi/morendi che, per il suo essere continuo, non ha più un carattere di eccezionalità ma di normalità. Nel libro di Tibor Fischer, scrittore ungherese fuggito a Londra durante la rivolta del ’56, possiamo leggere come questo dramma venga vissuto in una sconcertante atmosfera di normalità: “Gyuri non era aggiornato sull’andamento del suicidio sotto il regime socialista – magari era stato abolito – ma la popolarità di questo genere di fai-da-te non poteva essere attribuita interamente alla Rákosi & Co. Da secoli ungheresi di qualità e in quantità, se non riuscivano a entrare in uno degli eserciti ungheresi usi a farsi sbaragliare, si facevano saltare le cervella o restituivano altrimenti la libertà alla propria anima. Bastavano un momento d’inerzia, un poco di musica malinconica e subito un ungherese cercava di staccare la spina.”

Bisogna precisare però, che nella poesia di Petri non  è mai presente un richiamo, né un invito al suicidio. La sua poesia, che vive di tristezza e di oscurità, filtra le angosce fino a sedimentarle mediante il ricorso all’ironia e al grottesco. L’io lirico del poeta attraversa la sua tristezza e quella che lo circonda, cercando allo stesso tempo di non farsi intrappolare da questa. Ma anche se è assente nella poesia di Petri l’idea del suicidio, il poeta si ritrova a viverne indirettamente l’esperienza e a provarne il dolore. Lasciando da parte qualsiasi ironia e visione grottesca, egli viene proiettato mediante un caso di suicidio, in cui si sente personalmente coinvolto, in una dimensione di dolore, che come egli stesso ammette, sarà l’unica occasione in cui ha veramente pianto. Importante è quindi osservare come questa esperienza abbia influito sulla poesia di Petri, e come attraverso la scrittura l’autore riproponga l’avvenimento e conseguentemente cerchi una possibile catarsi. Prima di esaminare questo argomento vorrei riportare un’ intervista  in cui Petri spiega chi è Sára, come si incontrarono e come avvenne il suo suicidio.

 

“Come hai conosciuto Kepes Sára?”

Lessi in un articolo di giornale che una ragazza di 18 anni aveva vinto il concorso di composizione musicale Ferenc Erkel: era Sára. Mi sono interessato perché, sebbene conoscessi molti compositori, lei era la prima donna che componesse musica. Così ho chiesto al mio amico Ákos Fodor, che lavorava al Conservatorio di musica, di presentarmi Sára; da qui è cominciata una relazione che ha avuto un fine troppo rapida.

“Sára è morta perché ti disse che si voleva suicidare, e ti ha chiesto di chiudere la porta a chiave, e tu l’hai fatto. Pensavi che lo poteva farlo veramente?”

Si, naturalmente. Io ero completamente sicuro. Mi disse che questo era il suo desiderio. Dovevo esaudirlo. Anzi la condizione era che io dovevo chiudere la porta e non dire a nessuno che cosa voleva fare lei.

“Secondo te Sára era pazza?”

Completamente. Se non si fosse suicidata per la nostra relazione l’avrebbe fatto per un’ altra cosa.

“Che cosa significa, per la vostra relazione?”

Lei mi ha chiesto di rimanere lì quella sera e mi disse che se me ne andavo si sarebbe suicidata, io invece ho detto che non sarei rimasto.

“Ma perché? Semplicemente perché non ne avevi voglia?”

No, perché in quel periodo io avevo cominciato a ricomporre la mia relazione con mia moglie. Ho pensato: io sono libero, lei è libera; io me ne posso andare e lei si può suicidare, se fossi rimasto, questo avrebbe creato un precedente, e avrebbe significato che la volontà di Sára era così forte da potersi affermare rispetto alla mia.

“E poi?”

Dopo tre giorni mi ha telefonato la madre di Sára e mi ha detto che Sára era morta. Sono completamente sicuro che Sára era gravemente malata, e stranamente la sua malattia consisteva nel timore di essere malata di mente. Sua madre l’ha rinvenuta morta e accanto a lei c’era il manuale di psichiatria di Nyrõ ed era aperto alla pagina schizofrenia. Senti, questo è un incubo, è l’idiozia più grande della mia vita. Non esiste nessuna giustificazione per questo.

Si è voluto riportare interamente questa intervista, perché aiuta a  comprendere a fondo  la sconvolgente esperienza che il poeta si è trovato a vivere, ma anche il modo in cui egli si è posto nei confronti dell’intenzione del suicidio espressa da Sára. Questa esperienza viene continuamente rivissuta da parte del poeta nelle sue poesie. Diversi gli atteggiamenti con cui si pone, ma la figura di Sára, la realtà della sua morte sono simboli di una perdita irrimediabile che si estende a tutti i rami della vita, una orfananza dolorosa che si protrae negli anni senza possibilità di soluzione.

Le poesie a lei dedicate sono presenti già nella prima raccolta, Magyarázatok M. számára (Spiegazioni per M.) del 1971, e saranno presenti in tutte le altre, fino alla più recente, Vagyok, mit érdekelne (Sono, perchè dovrei curarmene) del 1996. E in quest’ultima raccolta si può leggere, in Sáráról  (Riguardo Sára):

Ho lasciato che tu morissi.

E non c’è giustificazione, né perdono.

Si è cominciata l’analisi da una delle ultime poesie per mostrare come una possibile catarsi, che poteva esserci attraverso la scrittura, non ci sia stata: il poeta, attraverso gli anni e attraverso i suoi versi, non riesce a trovare una pacificazione con se stesso. L’atteggiamento tenuto nella circostanza del suicidio sembra incolparlo e sottrargli qualsiasi via di redenzione. Petri avverte in tutta la sua gravità che il gesto del suo chiudere la porta e andare via ha aperto un’altra porta che lo unisce in maniera indissolubile allo spettro della morte di Sára. Ma il gesto di chiudere la porta e lasciare da sola Sára non solo segna definitivamente il momento della morte, ma crea la condizione perché ciò possa accadere: la  solitudine. Drieu La Rochelle, che scrisse un diario in cui prefigura il suo suicidio, così descrive la solitudine: “Quanto a me, ciò che maggiormente mi affascina in questo gesto è il suo compiersi nella solitudine. Io attribuisco alla solitudine ogni forma di virtù, che non sempre possiede.”

La  solitudine, nel caso di Petri, che non si realizza solo in rapporto a Sára, ma diviene una presenza reale anche per il poeta:

ieri mi trovavo ancora qui con te,

oggi l’attraverso da solo (il ponte)

e lo porta  a scrivere in Történet (Storia): “Dovrei vivere da solo”. Il gesto estremo compiuto nella solitudine e con la solitudine, lascia che questa stessa solitudine diventi poi il segno della morte e il suo ricordo. Il poeta, nella sua intenzione di vivere da solo, sceglie di vivere  non del ricordo, ma nel ricordo della morte. Già nelle prime poesie dedicate a Sára il poeta evita le giustificazioni inutili:

Si possono sempre addurre le circostanze

per autogiustificarsi, per scusarsi

tuttavia è fumo che già si perde

sopra il malvagio abbaglio della neve,/

il nostro amore.

perché egli avverte invece la realtà in tutta la sua drammaticità:

ma questo è successo molto tempo fa.

colei che ho creduto morta: è morta

Questo dramma incombe in maniera anche minacciosa:

La storia della nostra vita illumina

la nostra vita,

come il riflettore dell’automobile della polizia

la vittima.

Questo paragone mette in evidenza anche il modo in cui Petri considera la sua posizione e la sua vita. L’avvenimento costituito dal suicidio di Sára diviene il riflettore della polizia, e il poeta vede se stesso come una vittima che non può sfuggire, non può nascondersi. La sua vita così è illuminata costantemente dalla tragedia consumata e con essa si deve confrontare. E non solo, come si è visto prima, c’è la constatazione della morte, ormai un fatto innegabile, ma Petri va ancora più a fondo e descrive la morte con versi di alta tragicità.

Qui il sole brilla nei tuoi occhi, ma non ti svegli,

qui può borbottare la notte, ma tu non dormi,

qui ti prepari, ma non vai in nessun posto,

qui cammini, ma come lo scoiattolo sul cilindro.

e in 65 karácsonya (Natale 65):

ma Sára non si può abbellire di nuovo,

con un pò di cosmetica, né con vestitini.

Lo scoiattolo diventa anche il simbolo del ricordo ricorrente della morte, mentre il cilindro rappresenta la vita del poeta. Un circolo vizioso che non si può interrompere, e con questo ricordo Petri deve vivere e confrontarsi. Ma il rapporto con la morte lo porta a interrogarsi sulla realtà della vita e a metterla in discussione, poiché la realtà della morte diventa un dato indiscutibile. In Zátony (Banco di sabbia) l’ultimo verso pone la domanda in maniera inequivocabile:

E io cosa penso,

che sono ancora vivo?

Una risposta tragicamente violenta e senza possibilità di appello sembra darsela il poeta stesso, tramite Sára che gli appare in sogno e gli chiede: “perché vivi ancora?”. Questo verso non solo capovolge il senso della prima domanda, che ricerca ancora una possibilità di vita e si interroga sul valore stesso della vita, ma rimane anche l’unico esempio nella poesia di Petri che lasci intravedere la possibilità del suicidio. Il poeta delega la sua intenzione alle parole di Sára, non per celare il suo desiderio, ma per dare a queste parole  il carattere di una espiazione. La catarsi non giunge attraverso la scrittura e non giunge con lo scorrere del tempo: l’unica possibilità di catarsi è solo nell’atto della morte stessa. Ripagare la morte con la morte. Il suicidio con il suicidio. La problematica della catarsi viene affrontata dallo stesso Petri in I am here. You are there:

Provare dolore e innalzarsi

(giacché ne parliamo)

non sono affatto la stessa cosa

Egli ammette quindi che non esiste una via percorribile che possa pacificarlo. Ma nella stessa poesia, che probabilmente è una delle più intense, anche se non direttamente composta sulla figura di Sára, si avverte una certa serenità, una disperata tranquillità nel prendere atto della perdita della persona amata. Una distanza incolmabile lo separa da Sára e a cui il poeta non ha un rimedio o non sa porvi rimedio. Le lezioni d’inglese sono quindi un giusto paragone, da cui Petri dice di aver appreso che:

l’io può essere solo qui,

il tu solo là. E adesso, honey, veramente:

io sono qui. You are there.

E lascia che gli aspetti più intimi e quotidiani dei ricordi siano materia per altri poeti:

Almeno questo no.

Questa configurazione di

“l’abbiamo fatto nel baule,

sulla scala, separatamente”

lo lascio agli altri colleghi

E Petri conserva per se stesso le situazioni sospese, le non risposte, gli attimi avvolti dalla nebbia del tempo, prendendo definitiva coscienza del distacco:

poi abbiamo preso un taxi per te.

Mi chiedesti: vieni con me?

Io risposi: Perché? E tu sorridendo

tentennasti con la testa.

I am here. You are there.

Guardai i fari che si allontanavano.

So la prima lezione. Adesso viene il lost forever.

Ma per questo basta meno tempo.

e il ricordo della morte di Sára sarà:

un dolore ghiacciato, cristallino: scintilla, gioca sotto il sole.

(Aracne Editrice)

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