Agromafie e Caporalato: VII Rapporto

Shomèr ma mi-llailah?

di Sergio Nazzaro

Qualcuno si professa pro mafia? La domanda non vuole essere provocatoria e tantomeno è peregrina. Perché se ci si vuole immergere, per un attimo, nel significato e nella pratica quotidiana dell’antimafia sociale, bisogna necessariamente riconsegnare il significato alle parole. Anzi ricostruirle daccapo, perché si è sopraffatti dalle opinioni e poco dalle riflessioni.

Il termine antimafia ormai è anacronistico, forse lo è sempre stato. Non credo che vi sia mai stato qualcuno che sia professato pro mafia, o ci sia stato un movimento tale. C’è la pratica mafia, la mentalità mafiosa e la sua opposizione si chiama civiltà, democrazia, comunità. Destrutturando il concetto di fare movimento antimafia, essere antimafia significa essere semplicemente cittadini che onorano diritti e doveri, che ripudiano la violenza e soprattutto la prevaricazione quotidiana dettata dall’arroganza della forza. E per continuare con logica nel ragionamento, cosa significa antimafia sociale? Possiamo avere un’antimafia antisociale? Quasi una riscrittura del testo di Francesco Guccini “Il sociale e l’antisociale”, o forse contiene una verità nascosta un’antimafia sociale, che quando non lo è sociale, serve ad essere scalata nella visibilità pubblica, nelle graduatorie di libri, nello show biz così definito.

La mafia non piace, ma l’antimafia ti ricopre di una patina di bontà, di buonismo o di super eroismo che comunque ci porta lontano dal cuore di questo scritto. C’è differenza quindi tra essere o fare antimafia sociale, è la pratica quotidiana di comunità che ricerca sé stessa e nel dialogo tra le sue parti la costruzione di una visione di mondo e società diversa. E prima di inoltrarci ancora di più in questo campo, dove giocano un ruolo fondamentale i beni confiscati, l’agricoltura sociale (come se ci fossero peperoni antisociali e zucchine incazzose con chi le raccoglie) bisogna porsi davanti ad una domanda necessaria e fondamentale: in cosa siamo diversi con la mafia? Questa domanda deve ritornare ad essere centrale nel dibattito nazionale, ed è la più scomoda che possiamo porci. Perché potrebbe essere una domanda rivoluzionaria. Le mafie tendono al denaro e al potere. La nostra società, cosiddetta civile, parla di denaro dalla mattina alla sera. Mancano i soldi per la casa, il mutuo, l’ospedale, la scuola.

Il denaro è l’argomento principale delle nostre vite, e bisogna cominciare a dirlo senza averne timore. Lo stesso timore che ci induce a sapere tutto delle vite delle persone, meno quanto guadagnano, un argomento vietato sapere è che stipendio una persona percepisce, è il segreto ultimo dei componenti della società civile. Viviamo in una società dove poco prima del telegiornale o poco dopo, si aprono pacchi, si girano carte e si vincono soldi. Anche tanti. E se sono proprio tanti, diventa una notizia con tanto di coriandoli che piovono dal soffitto. Se poi parliamo delle vincite del lotto, diventano notizia predominante, perché si sono vinti tanti soldi. Si possono già ascoltare le opposizioni a questa tesi, eppure nessuno ha mai avuto un aumento di stipendio perché è una brava persona che aiuta i migranti o gli sfruttati nei campi agricoli. Oppure nessuno è stato promosso arrivando tardi al lavoro perché la notte aiuta i senzatetto, ne ha avuto uno scatto di carriera. Viviamo in una società di valori, ma quelli degli altri che non devono mai intaccare la propria macchina di produzione del denaro, anche se poi alla chiusura dell’orario di lavoro tutti ci lamentiamo che si va di corsa e che si perdono (sigh) i valori fondamentali.

Dove allora trovare la differenza tra la mafia e noi? Siamo al punto che il caporalato è scomparso, perché la pratica dello sfruttamento per lavoro di esseri umani è maggioritario, dai campi agli uffici. C’è una crisi del nostro sistema che non riesce a vedere il re nudo di una società votata al denaro, che non lascia nessun margine di differenza con le mafie. Se abbiamo come valore il denaro, le mafie hanno vinto: sono spregiudicate, non hanno remore morali, non si fanno paravento di presunte carature valoriali. Dovremmo essere noi, società umana e civile, a porre al centro valori diversi: solidarietà, sostegno, umanità, e con questi valori saldamente in tasca e nel cuore si possono battere facilmente le mafie, ma fino a quel punto siamo perdenti. Dura da digerire ma se ci si riflette bene è proprio la realtà in cui siamo immersi. Ma aveva anticipato tutto, come sempre, il giudice Giovanni Falcone: «Se vogliamo combattere efficacemente la mafia dobbiamo riconoscere che ci assomiglia»

A che punto è quindi l’antimafia sociale, anzi la creazione di comunità nuove che costruiscono speranza? Bene, a dirla tuttaesempi e realtà si spargono come semina continua. Associazioni, cooperative, gruppi autogestiti, scout, azione cattolica, gruppi parrocchiali, studenteschi, c’è un movimento immenso di giovani e volontari che inonda l’Italia dalla mattina alla sera e durante l’estate raggiunge picchi di partecipazione nell’ordine di centinaia di migliaia, ma non fanno notizia. 

Una notizia di cronaca copre il cammino e l’azione di centinaia di migliaia che sono la colonna portante del sistema Paese Italia. Siamo una nazione salda nella Costituzione per questa spina dorsale, che non cede alla rassegnazione, all’incupimento del “tanto va tutto male”. Queste migliaia di braccia si danno da fare, cercano di comprendere la realtà, anche delle criminalità organizzate, costruendo pedane per disabili, strappando erbacce, facendo raccolta nelle campagne. Una sensibilità forte, che si interroga, che sa essere critica. E parto dall’esperienza della cooperativa sociale “Al di là dei Sogni” di Maiano di Sessa Aurunca che opera sul bene confiscato “Alberto Varone” in provincia di Caserta, il più grande bene confiscato per riuso sociale. Non è solo l’estate, ma soprattutto l’inverno, dove migliaia di ragazzi scelgono, invece di andare in gita scolastica, di venire su un bene confiscato a fare impegno e volontariato. Una rivoluzione silenziosa, al mero divertimento la comprensione della realtà. E aumentano di anno in anno. Perché la prima vera azione di chi pratica antimafia è rimettere le relazioni umane al centro delle vite dei ragazzi, delle persone, di tutti. Questo passaggio, così semplice, è quello che diventa sempre più centrale. Legalità è divertirsi insieme, rimettersi in relazione con l’altro per davvero anche se è il tuo compagno di scuola con cui forse non hai mai parlato prima. Ed insieme ti prendi cura dei più fragili. In una campagna, tra i campi, su un bene confiscato incontri i cosiddetti fragili che provengono dalla salute mentale, dalle dipendenze, dal carcere, messi alla prova. Ma non tutti sono riconoscibili. E nessuno ti dice chi è chi mentre si lavora insieme, sotto al sole, o quando piove. Si suda insieme, si fatica insieme, ci crea una relazione che cancella il pregiudizio. Perché alla fine della giornata conta la stanchezza condivisa, la conoscenza condivisa, l’esperienza condivisa. Conoscere il passato del tuo prossimo dopo quanto sposta della tua percezione?

Ecco l’antimafia sociale, che finalmente si trasforma in essere comunità altra che rimette al centro i valori fondamentali. Oltre le differenze regionali, il colore della pelle, le fedi, le credenze, oltre a tutto ci sono soltanto gli esseri umani.

E cosa comprendiamo degli esseri umani che vengono ridotti in schiavitù nella campagna? Molto di più, quando sotto il sole, ridendo e scherzando, si alzano cassetta di frutta e ortaggi, bevendo acqua a profusione e fermandosi tutte le volte che si vuole, e comprendere la fatica e i pochi centesimi che invece vengono pagati a chi è costretto nella terra come inferno invece che come amore e rinascita.

Suona poetico, ma è la nostra pratica. Siamo eccezionali? Assolutamente no, siamo replicabili invece. E in rete, una nuova cooperazione organizzata che ruba l’acronimo alla famigerata NCO di Cutolo. Rubare le parole per ridargli vita e senso. Nei micro modelli e nella loro diffusione c’è anche la risposta a come rifornire il celebre mercato che sfama le persone.

L’esempio di “Pietra di Scarto” in Puglia, “Goel” in Calabria e alle miglia e migliaia di esperienze di agricoltura sociale, agricoltura fatta senza pesticidi e senza sfruttamento, che costituisce la risposta del possibile.

Non bravi ragazzi, non belle storie di riempitivo tra un programma di giochi a premi e una grattata di superenalotto. Ma realtà, pratica e produzione. Una rete produttiva e distributiva enorme che viene sottaciuta, come le migliaia e migliaia di volontari che affollano la nostra società italiana e la rendono migliore ogni giorni, ma a cui si dedica solo il minuto dei TG a ferragosto perché non sappiamo cosa altro raccontare tra un servizio di ombrellone e una frittura di pesce più o meno cara, più o meno buona. In questa azione così persistente si inserisce la realtà dei beni confiscati, sempre più numerosi, sempre più importanti. Ma anche qui c’è una cattiva percezione: quelli dei beni confiscati, senza ricordarsi che la lotta alle mafie, dall’azione investigativa, giudiziaria, continua nella responsabilità della riconsegna a molti di ciò che apparteneva ad uno. Anche qui prevale la narrativa dei bravi ragazzi (e non sono quelli di Martin Scorsese), di impegno buono per un trafiletto, per un fugace applauso, per un impegno quasi di controvoglia perché bisogna pur presenziare, e senza mai comprendere il ruolo di devastante cambiamento che possono apportare.

Ma mentre aumentano i beni confiscati, forse cala la passione nella loro gestione. Siamo volontari, assistenti sociali, psicologi, operatori sanitari, animatrici ed animatori. E chi fa le carte per il comune? Chi è il progettista per i fondi, chi si occupa della contabilità, chi delle pratiche edilizie? Ecco c’è una visione miope dei bravi ragazzi che si occupano di beni confiscati. Ci vogliono molteplici e mutevoli professionalità per far fronte all’infinta e dantesca burocrazia italiana. Nell’enorme complessità delle materie legislative italiane diventa una vera sfida dare lavoro, costruire un’economia sociale vera, concreta. Perché le mafie non sparano più, ma se l’amministrazione non ti è vicina, è solidale e convintamente anti mafiosa, ecco che la fine è già segnata. Basterà un timbro mancante per far cadere il marchio dell’infamia dell’illegalità su un’esperienza che cerca di apportare linfa nuova in una comunità ferita. La delegittimazione è la vera pistola delle mafie. Perché gli esempi devono essere messi a tacere. Soprattutto se non usi pesticidi, se rispetti la terra, se curi i matti coinvolgendo il pubblico e non facendo sanità privata, non speculi sulle malattie ma rimetti la dignità delle persone al centro. Sei un esempio di non spreco dei soldi e dei fondi pubblici e quindi devi essere fermato.

Il vero petrolio delle mafie è il disagio delle persone, le loro malattie, la necessità di assistenza sanitaria, la malattia tua è la risorsa loro. E se invece c’è qualcuno che pone le persone al centro, ecco che va in cortocircuito il sistema.

I beni confiscati quindi sono materia complessa e non solo da sventolare come gadget della legalità, sono necessari come l’aria, senza poi finire purtroppo con gli scandali dove gli stessi custodi della Giustizia se ne approfittano per lucrare. E ritorniamo al punto delle differenze con le mafie: quale la differenza, la costante ricerca di denaro ci rende simili.

Un’amministrazione vicina ad un bene confiscato è necessario e auspicabile, ma è anche una fortuna avere nella figura del sindaco, della sua giunta, la sensibilità  alla legalità, alla sua pratica e a coltivare idee e progetti. Perché se apri una finestra, oppure sistemi un pezzo di muro senza l’aiuto di qualcuno che conosce la carte e sa come farlo, il giorno dopo sei sul giornale locale paragonato ai peggiori criminali.  

Questo necessario racconto perché l’idea di prendere un bene confiscato, coltivarci sopra e poi fare la marmellata o i sottoli è bella, ma per renderla vera ci vuole determinazione, follia e coraggio. E quando impari ad usare i macchinari, impari un lavoro, impari un mestiere, con i tempi giusti dell’umano; quando impari le procedure per far analizzare un prodotto, impari un mestiere, impari la professione, quando qualcuno mangia ciò che hai prodotto, hai la soddisfazione del lavoro riuscito. E se una volta ti vedevano come un pazzo, un carcerato, oggi non sei un problema, ma un lavoratore, che guadagna, che paga le tasse, hai valore nel valore della tua produzione, hai valore perché il lavoro gira intorno alla tua persona e non le persone che girano intorno ad un lavoro.

Qui si innesta quindi la terra, la coltivazione, la produzione biologica come rivalsa sulle mafie. Qui, la coltivazione biologica su un bene confiscato con persone fragili dona il sapore che lo rende speciale, come quando trovi i prodotti sugli scaffali dei più importanti distributori di prodotti bio d’Italia.

E sì, siamo arrivati al denaro come mezzo e non come fine. Siamo agli stipendi giusti, precisi e puntuali. Siamo arrivati anche noi al denaro senza consumare il cuore e la carne delle persone, ma riconsegnando sangue e vitalità alle persone, l’allegria del lavoro, l’esperienza della possibilità di un’emozione. Rimettere le persone al centro quindi e non il denaro. Costruire ricchezza condivisa, essere comunità solidale, condividere l’esperienza. Non è un cammino immaginario ma è un bene confiscato che gestisce terreni agricoli e soprattutto non è l’unica esperienza.

Questo significa che va tutto bene? Assolutamente no. La disattenzione la fa da padrona, le mafie sono tornate ad essere un problema distante dalle persone. Sappiamo chi sono, sappiamo che sparano poco, sappiamo che vogliono solo fare denaro, e siamo anche ammirati dalla loro bravura. Anzi, beati loro che sono pieni di milioni di euro e che vivono meglio tutto il caro vita e l’inflazione. Che poi a dirla tutta, se chiedono qualcosa si può dare e si può fare, perché non è questione di sangue ma di carte e impicci, di forza solo se è necessario, ma ormai è tutto un carte bollate, atti di compravendita, investimenti, riciclaggio, denaro e ancora denaro, silenzioso, e che se cade un poco dal tavolo qualcuno che lo vuole prendere c’è sempre. Sono lontani dalle piazze di spaccio che inondano i paesi e i paesini di ogni dove. Sono lontani dalla disperazione delle famiglie investite dalla nuova pandemia di crack e cocaina che ormai non fa più distinzione tra professionista e muratore, le famiglie disperate sono tutte uguali. Sono lì a contare denaro che proviene dalle piazze di spaccio, mentre seminano per davvero disperazione. Qualcuno muore per contendersi la piazza di spaccio, qualcun altro muore di overdose e una madre di crepacuore, ma che vuoi che sia nell’epoca dei migranti che sbarcano e che preoccupano di più.

I beni confiscati diventano quindi un argine e in tantissimi casi, l’unico approdo di aiuto per le difficoltà di una comunità. Sono una piccola ma comunque importante risorsa di lavoro, creano e costruiscono reti di economia che distribuiscono anche posti di lavoro, una filiera virtuosa. Non è antimafia, è comunità che si sostiene e divide quello che ha per non lasciare nessuno indietro. E terra, da cui ricavare sostegno e conoscenza, dove non far morire le coltivazioni autoctone e dove ripristinare la dignità degli agricoltori, tutti, perché chiamarli braccianti non ha senso.  

A che punto siamo della notte? È stato costruito molto, tantissimo. In tante province meridionali è netta la sconfitta delle mafie, ma c’è bisogno della rivolta dei buoni, della loro azione ingegnosa. Non siamo più a trenta anni, stagione delle bombe, non si spara più ma si lucra molto di più sulle spalle delle persone, perciò la domanda in cosa siamo diversi dalla mafia deve diventare centrale, è la domanda che serve a riporre al centro del dibattito, anche e soprattutto politico, la visione di una società che ha nel denaro il suo fine primo e ultimo, invece di averlo nelle persone, soprattutto le più fragili. Le mafie possiamo distinguerle in quella dei colletti bianchi, nelle agromafie, mafie dei pascoli, mafie dei quartieri, mafie dei contratti e degli appalti pubblici, mafie della ristorazione, e possiamo continuare, alla fine è sempre di soldi che si parla, solo di quello e dello sfruttamento delle persone.

E noi che siamo società civile? Noi che predichiamo onestà e poi paghiamo stipendi part-time a poco prezzo? Che neghiamo il futuro e la cura dei malati? Se c’è una visione del mondo possiamo costruirlo, abbiamo gli esempi, abbiamo esperienze, ma diventa necessario uscire dalle parole senza senso, dai termini inutili, dai buonismi, dalle coscienze lavate di tanto in tanto e operare concretamente. Altrimenti la storia assomiglierà ad un malato psichiatrico imbottito di farmaci a vita per il suo bene, senza mai provare a trascinarlo fuori dalla follia, perché la sua follia paga bene.

Dal nord al sud, siamo un Paese vivace di esperienze, concrete, che funzionano e producono reddito. Non siamo persone buone ma che lavorano. Siamo sognatori folli, ma concreti, siamo pratici e burocratici. Dialoghiamo con i bambini, gli studenti e gli universitari, dialoghiamo con chi ha necessità e chi invece non ha problemi e vuole dare una mano. Siamo quelli che parlano di Satnam Singh, che ne colgono tutto l’orrore, che, come per il cambiamento climatico, avvertiamo che ogni possibile soglia di decenza è stata superata e non c’è più bisogno di discutere ma di agire. Di essere il cambiamento che si desidera. È necessario il recupero vero, non assistenziale delle persone, ridare dignità e indipendenza, immergersi nella realtà dolente con spirito umano e guarire insieme. Bisogna formarsi, sempre. Soprattutto non essere contro ma costruire ponti di dialogo, intrecciare le esperienze più diverse che creano inclusione in mondi che di fatto sono già globali nella bellezza delle loro differenze e diversità. C’ bisogno che i grandi operatori economici non facciano più solo donazioni meritevoli e sostegno a progetti meritevoli, ma scendano in campo di fianco ai beni confiscati e alle realtà di cambiamento affinché possiamo essere agenti e promotori di cambiamento radicale. Non è battaglia solitaria, non ci sono eroi solitari ma comunità, solo comunità che possono crescere insieme nell’equità del lavoro, che calpestano la medesima terra fatta di accoglienza e non violenza. Perché finché vedremo uomini e donne sui rimorchi dei mezzi agricoli come se fossero oggetti, siamo sempre sull’orlo del baratro. C’è bisogno di una azione concreta: “dunque”, disse la formica, e cominciò a pisciare nel mare.