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Annibale: segni e disegni di un mito

 

Annibale: segni e disegni di un mito (Tempesta Editore) 

Ispirato dai racconti di Paolo Rumiz, con un testo di Sergio Nazzaro (italian and english text)

Sinossi

Paolo Rumiz, scrittore e giornalista di Repubblica, con lo stile inconfondibile che lo contraddistingue ha ripercorso le tappe del mitico viaggio di Annibale con una narrazione che ancora una volta ci restituisce il legame indissolubile tra storia, paesaggio e attualità.

Schegge del racconto, quelle strettamente inerenti le gesta del condottiero, sono state distribuite ad artisti europei di diversa età, provenienza e formazione che si sono cimentati nell’ardua impresa di raffigurare il mito ed il suo portato di simboli prendendo spunto dall’opera dell’autore triestino.

Lasciamo ai lettori e ai visitatori della mostra il giudizio sul risultato dell’iniziativa.

Il festival “Le strade del Paesaggio”, nel costruire quest’opera collettiva, volge lo sguardo a quello spazio comune europeo, tutto ancora da costruire, che nell’attualizzazione della consapevolezza del proprio passato può e deve trovare il baricentro per immaginare un futuro da guardare con rinnovato entusiasmo e fiducia.

 

Il virus di Annibale  di Sergio Nazzaro

(testo presente nel catalogo Annibale: segni e disegni di un mito)

Annibale si guardò allo specchio. Erano giorni che non lo faceva. In verità, non lo faceva più da tempo. Cambiava lo sguardo, che si stava spegnendo nella paura di una vita senza conquiste. Conquiste, già, se mai ci fosse stata una vita vera e propria. E’ difficile essere Annibale? Una domanda strana, eppure risuonava nella sua testa nei momenti meno opportuni. Come quel momento che stava vivendo davanti allo specchio. Momento opportuno, se mai dovesse esistere per davvero, e allora lo chiamano destino, il caso. Era solo un ricordo ormai, per pochi. Strano effetto fa la battaglia, quando tutti i nervi sono tesi, le vene si agitano come neonati di anguille e il mal di testa preme sulla cervicale, pensi se sia difficile essere se stessi. Essere Annibale, o un qualsiasi altro nome, senza documento, tutto è possibile. Non che all’epoca esistessero, e doveva esserci per forza di cosa grande confusione, come quella appena fuori la finestra. Motivi diversi o simili che fossero, la battaglia la si combatte, e chi vince ha ragione. Tutto qua. Non vince chi ha ragione, non vincono i buoni, ma i violenti, i determinati. Poi la storia li onorerà come buoni e onesti, valorosi e coraggiosi. Se c’è qualcuno che ancora sa scrivere e narrare le gesta delle battaglie. Il virus. Tossì. No, nessuna infezione strana, nessuna malattia, anche se quando passava lui, molti si scansavano. Il virus del padre, della conquista della terra, delle sue ricchezze, la promessa di una vita che fosse tale e per essere tale doveva essere ricca, altrimenti non era vita. Quel maledetto virus lo aveva portato davanti allo specchio. Aveva paura di guardarsi, di non riconoscersi, e in fin dei conti, se non si riconosceva lui, nessuno lo avrebbe fatto. Non è come in una città, quando cammini e ti sorprendi che qualcuno pronuncia il tuo nome. Neanche un paese era, meno che meno una frontiera, almeno la si attraversa e si è al di là di qualcosa. Non solo campagna arida, dove al sole fa freddo. Qualche casa, di mattone e cemento. In fin dei conti qualcuno ha mai sentito pronunciare il nome Annibale in mezzo alla strada? Forte come Ercole, Annibale come cosa? Come un africano. Più o meno nero, che differenza fa. Tutti uguali nell’ignoranza degli altri. Non hanno bisogno di fare distinzione quando non c’è volontà di comprensione. Il padre. Lo aveva inseguito per tutta l’Europa. La madre, malata alle ginocchia non usciva più di casa da mesi, poi tutte le ossa hanno cominciato a cedere. Un solo desiderio, rivedere il marito, andato via per lavorare. Annibale si era messo in marcia, con i soldi prestati dai parenti e dagli amici. Aveva promesso che non si sarebbe ammalato del virus del padre. Che sarebbe tornato indietro. Dalle coste dell’Africa mediterranea in Spagna, poi in Francia. Autobus, treno, mai quelli veloci, più corrono più costano. Una traccia dopo l’altra. Una fotografia, un riferimento. Da una periferia all’altra o da una campagna all’altra, da una fattoria all’altra. Mai un centro città, mai un quartiere bello, benestante come li definiscono gli altri. Una traccia dopo l’altra, fino al Nord Italia. Qui aveva cominciato a perdersi tra distretti industriali. Non sono periferie, neanche città o paesi, ma distretti industriali. In molti, chiusi, abbondati, aveva trovato rifugio, addormentandosi sui bancali di ferro o di legno. Su masse di plastiche lavorate mai consegnate. Aveva evitato guardie e cani che proteggevano fallimenti dichiarati e capannoni industriali stile lego. Se fossimo tutti uguali, Annibale avrebbe chiesto notizie del padre agli africani. Ma doveva cercare quelli con la pelle meno scura, e non confondersi con quella bruciata dal sole delle campagne o dai trucioli delle fonderie. Il padre, una sola immagine gli era rimasta impressa, quando aveva pianto, appena fuori la strada. Era piccolo, anche se in alcuni luoghi del mondo non ha senso questo parola. Il genitore rigido sulle gambe si era voltato, una pacca sulla spalla e aveva pianto. Un sussulto, veloce e repentino, incontrollabile. Annibale si era sentito smarrito, finito. Non aveva avuto la forza di dire nulla, solo dare una pacca sulla gamba del padre e dire che andava tutto bene. Annibale era sceso dal Nord Italia, puntava verso Sud. Doveva saperlo. Il padre, già avanti con gli anni, non poteva essere una risorsa umana interessante. Quasi anziano ai suoi occhi che non si arrendevano ancora del tutto a quella pacca sulla gamba. Aveva evitato Roma. Una città grande, da perdersi, ma lo avevano messo in guardia: anche se grande, caotica, lo avrebbero potuto prendere. Legioni di uomini in divisa si aggiravano notte e giorno a guardia dei palazzi. La sua pelle lo avrebbe tradito di sicuro. Doveva andare a Sud, evitando Roma. Una voce lo aveva messo sulla pista giusta: per le campagne c’è sempre posto. E’ dura, ma qualcosa si fa sempre e chi sopravvive alla campagna non muore quasi mai. E di campagne da fare, il Sud ne è sempre pieno. Gli avevano detto che alla fine dei conti era simile a casa sua. Non doveva avere paura, ma nascondersi sempre. Ma tanti di loro stavano a Sud, e non potevano mandarli via tutti, e assolutamente non doveva dire che il suo nome fosse Annibale, altrimenti pensavano che si prendeva gioco del Potere e delle sue Forze, che si trovasse un altro nome. E poi non aveva studiato la storia? Annibale aveva fatto solo danni ed era odiato. Era arrivato al Garigliano, al confine del Sud con il mondo. Forse solo una frontiera che non andava in nessun Paese. Era arrivato a Castel Volturno, e gli sembrò per un momento che fosse tornato a casa. Tutti neri, pochi della sua pelle, e pochi bianchi. Lì aveva conosciuto e capito il virus. Un africano vero, cioè nero, come se ci possono essere africani falsi e per di più senza la pelle nera. Il lungo viaggio cominciava a confondergli i pensieri. Comunque sia Ajean gli aveva spiegato che cosa era successo a suo padre. Lo aveva conosciuto il padre di Annibale, uomo fiero ma fragile. I sogni e l’impotenza di realizzarli lo avevano condotto nelle braccia del virus. Non poteva più tornare a casa. Aveva fallito, non c’era lavoro, ma solo sofferenza e umiliazione. E i soldi il giorno di paga non ci stavano quasi mai. A casa ricevevano ogni tanto una lettera che tutto andava bene? Che non ci stavano problemi e che presto tutto sarebbe stato diverso? Ecco quelli erano i sintomi. Almeno i primi sintomi. Le lettere cominciano con tono fiducioso: si legge speranza, timore, ma anche caparbietà. Un incoraggiamento a se stessi piuttosto che a chi legge. Poi le lettere diventano rade. Si ricopiano dalla memoria in frasi già fatte, che non hanno però più speranza, ma solo una paura diventata certezza di non essere più nulla. Senza un soldo in tasca, quello che fa la differenza. Probabilmente a casa di Annibale, mentre lui era in viaggio, erano arrivate altre lettere così. Il virus, la malattia mortale di non poter tornare più a casa perché non hai concluso niente. E rimani in terra straniera con la speranza che prima o poi ci siano conquiste che cambino il corso degli eventi. E ti consumi, perché non c’è nessun esercito su cui confidare, neanche un amico. Sei solo, senza neanche una pacca sulla gamba. Potresti farti prendere dalle legioni degli uomini in divisa, farti riportare indietro. Invece rimani e sopravvivi alla tua morte quotidiana. Il virus consuma, ma non uccide. Ti toglie un poco alla volta la volontà di alzarti e ricordati che hai ancora una casa.

Annibale aveva lasciato Castel Volturno. Aveva attraversato Napoli, sempre più come a casa, ma sempre più lontano. Una corriera lo aveva portato nelle piane dei pomodori a Battipaglia. Ma anche da lì il padre era andato via. Altre corriere, pochi treni, molto locali, con solo due carrozze, come non ne aveva visto al Nord. A Sud ce ne sono tante, ma pochi le usano. Aveva camminato lungo la riva del mare. Affollati di ombrelloni, di voci, di macchie di gasolio nella sabbia. Non era nessuno, Annibale, che ne dicessero tutti, Annibale era un fallimento. Uno straniero che voleva essere padrone in casa di altri. No, padrone mai. Ma non era un turista su quella riva di spiaggia, persona banale che nel tempo bello si aggira come una mosca fastidiosa, neanche un viaggiatore che scopre terre nuove. Essere nulla passeggiando sulla riva del mare. Aveva studiato Annibale. Non che serva molto, quando immagini che tutta l’Africa è fatta di polvere e sedie di legno con lavagne recuperate in una discarica. Non importa che qualcuno sapesse che fosse diverso, importa cosa immagina la maggioranza. Lo aveva capito, e per questo motivo passava le mattine al porto vicino a casa, le barche che si agitano nelle acque calme rispecchiavano il suo stato d’animo, di essere prigioniero di una vita non scelta, ma con ancore e zavorre a controllarne il beccheggio: senza soldi non hai futuro. Aveva anche studiato Annibale, la gloria nazionale che aveva bastonato i Romani, per poi essere sconfitto da uno che si chiamava Africano. La solita storia comunque la si vedesse: africani che lottano africani, o bianchi che si fingono africani e alla fine ti pugnalano alle spalle. Anche Annibale aveva il virus, sicuramente. Altrimenti perché sarebbe morto lontano da casa. La riva del mare era diventata in men che si dica scoscesa, stupenda e malvagia. Rocce, alte, taglienti. Lo aveva avvertito un pescatore: tra poco attraverserai il confine trala Campaniai suoi ozi e le sue stragi di africani ed entri una terra che sa di scoglio, che non disseta,la Calabria. Questaera l’ultima meta di Annibale, il padre doveva essere lì, da qualche parte, in una campagna a lavorare. Pezzi piccoli di informazione raccolti come cicche di sigarette sulla strada lo avevano convinto che stava per finire la sua ricerca e stava per tornare a casa, con il padre. Aveva abbandonato le rive del mare e aveva scoperto le montagne Annibale. Fredde, anche d’estate. Faticosala Calabria, assomigliava alla vita, in certi tratti una splendida vista, il resto sofferenza per giungere da un posto ad un altro, nella diffidenza e il silenzio delle persone che lo osservavano senza esprimere un giudizio. Sì, il padre lo aveva trovato, morto. Era stato investito da una macchina di notte. Il colore della pelle meno adatto è quello di un africano, più o meno scuro, per camminare nelle strade sterrate del Sud, quando non c’è la luna piena e l’illuminazione comunale è uno scherzo che si accende solo per la festa del patrono. Non era riuscito a trovare la tomba del padre. Almeno non i precisi centimetri di terra che circondavano il corpo. Un cimitero comunale ospitava insieme tutti i morti stranieri che non potevano provvedere tramite il pianto di un parente ad un rientro almeno in nave via ambasciata o consolato che fosse. Quando nessuno ti reclama, la terra ti accoglie. In silenzio, senza nessun simbolo, per offendere l’anima del corpo morto, caso mai fosse un musulmano. Il padre di Annibale non aveva Dio, o almeno aveva posposto il problema a quando avesse avuto un poco di soldi, perché il tempo sottoratto dalla preghiera, non produceva denaro. Neanche quello a spezzarsi la schiena in campagna, ma almeno gli dei li erano visibili e gridavano con voci rauche e minacciose. Annibale si girò dallo specchio, la sua stessa vista gli faceva venire conati di vomito. Guardò la famiglia terrorizzata. La stessa famiglia che gli aveva raccontato gli avvenimenti ultimi del padre. Era loro ospite, lo facevano lavorare tra le loro arance. Era vecchio e ne avevano compassione, perciò non lo facevano dormire sotto gli alberi ma nel capanno degli attrezzi. E non gli facevano mangiare solo le arance, ma anche un pezzo di pane ogni tanto, e poi non tardavano mai più di una settimana a dargli i soldi, anche se qualche euro in meno, data l’età del padre. Non avevano ricevuto nulla a casa, eppure non aveva spese lì con loro. Pensavano a tutto loro, e poi era bravo non aveva vizi, anche se era straniero. Non si ubriacava. Loro erano diversi, altri trattavano anche peggio. Gli avevano detto tutto quello che voleva sapere Annibale. Le voci cominciavano a far trasparire paura, rancore, il risentimento, tutti gli stranieri uguali. Anche se ti comporti bene, come con quel vecchio che non valeva nulla, un intralcio, un peso, che ora occupava spazio nel cimitero. Siamo emigrati anche noi, sappiamo che è dura, ma comunque qui ci sono regole non si può pagare di più di quanto è stato fissato, da chi non si sa mai. E poi ci sono i controlli, quelli che non vengono mai, ma che sono un rischio teorico da buttare sul piatto di una paga magra che serve a comprare il cibo per i cani e i gatti di casa. Annibale sentiva, non guardava più. Le loro voci, quasi un salmo tra ingiuria e invocazione. Il padre sbagliava, i soldi non sono tutto nella vita. Anche una bottiglia di benzina con un pezzo di stoffa dentro è tutto nella vita. Quella famiglia aveva fatto il possibile? Poteva fare di più o di meno, ma non avevano dato al padre una pacca sulla gamba. Si girò verso lo specchio. Fuori luci blu, roghi. Rosarno era in fiamme. I vincitori sarebbero stati i più violenti e determinati. Sarebbero diventati i buoni dei giorni a venire. Si girò di scatto e lanciò la bottiglia.

Al porto di casa Annibale aveva sentito molte storie di uomini che cercavano barche a pagamento che portavano verso la terra promessa. Qualche volta il prezzo del biglietto, quantunque fosse stato pagato per intero, portava ad una fermata nel mare più profondo. Senza nessuna pensilina a cui aggrapparsi. Era fuggito Annibale. Le grida, l’urlo del vetro che si zittiva nella fiammata. Le legioni degli uomini in divisa che si precipitavano, africani dalla pelle scura, bianchi dalla pelle rugosa a segnare i confini del loro territorio che diventava un non luogo a procedere. Con pale, forconi, pistole e l’arroganza dell’impunità e di una carta d’identità che reclamava cittadinanza italiana. La confusione, le luci delle televisioni. Mondi vocianti che inseguivano Annibale. Dove era finito Annibale? Correva da giorni per le campagne. Terra maledetta l’Italia. Dove i Romani avevano creato il diritto, millenni prima, per avere tutto il tempo di dimenticarlo dopo. Gli stessi Romani che si dissetavano del sangue degli schiavi nelle arene dei gladiatori. Annibale ora era solo, e nella terra di coloro che avevano crocifisso Cristo, erano gli africani i nuovi portatori di colpe millenari, come di sporcizia e di ogni problema che poteva abbattersi in una terra dagli scogli taglienti. Non importa la terra, né chi avesse messo per davvero i chiodi a Cristo o cosa venisse a fare un uomo dalla pelle nera in terra straniera. C’è bisogno di un colpevole per espiare le colpe degli altri. Proprio perché il diritto e il sangue sono in contraddizione, c’è bisogno della morte di un’innocente per affermare le colpe dei buoni, di coloro che vincono e domani, forse saranno in un manuale di storia. La corsa era continuata per giorni. Rosarno era distante, come il virus. Morto il padre, non c’era più nulla da fare, nessuno da riportare indietro. E di sicuro la madre era peggiorata se non morta. Il dolore attraversa il mare, è così. Come un rito ancestrale, perché in alcuni luoghi ancora non c’è email o posta elettronica per annunciare la morte di un proprio caro. Il padre era morto su una strada polverosa, e sua madre lo aveva avvertito come un sospiro sovrappensiero che ti lascia amareggiato. Non era uno specchio, ma ci somigliava. La luce della luna si rifletteva sull’acqua del mare. Annibale era arrivato al confine di quella terra. Dove cominciava l’acqua, finivala Calabria, l’Italia, la sua fuga. No, non ci sono barche che paghi perché ti riportano indietro a casa. La tratta è a senso unico, come la storia e il benessere. Annibale sapeva benissimo che non sarebbe potuto arrivare a nuoto a casa, neanche avrebbe mai pensato una cosa così stupida. Africano sì, banale no. Cominciò a nuotare. Su quella strada verso Sud, nessuno gli avrebbe chiesto il nome, un documento o perché si chiamasse Annibale. Non gli avrebbero mai chiesto conto delle sue azioni, e se avesse fatto la cosa giusta. Alla fine del giorno, della riva, della sabbia e della storia non rimangono che busti dimenticati in sale poco visitate: già qualcosa in un Paese sovrano di mezzi busti.

 

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