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Ark o dell’orfananza

postafazione per Ark di Alessandro Rak e Andrea Scoppetta

L’opera di Rak&Scoppetta si (s)compone attraverso la frammentazione del linguaggio del Fumetto. Le immagini si susseguono senza sfondi, senza un terreno che si ripeta pagina dopo pagina, senza un continuo temporale, senza una scrittura consequenziale, ma cercano di rimandare alla scomposizione dell’interrogarsi esistenziale, usando il dolore come traghetto per attraversare e ricomporre i frammenti dell’interrogarsi: nessuna risposta è data, solo affermazioni (di odio) altisonanti, secche, gelide, così raffinate che sembrano giocare con la retorica su una linea divisoria, mai attraversata.

Ricomposizione, quindi, attraverso il dolore delle migliaia di frammenti vetrificati dell’inutilità del domandarsi e probabilmente del vivere. Ark pesca, con un fucile in mano, in un mare di pesci spolpati, le spine, le ossature dei punti di domanda. Unico punto di riferimento diviene il labile fumo della perenne sigaretta tra le labbra di Ark, che non teme le acque o il vento, la notte e il giorno, che lascia spazio solo alla fuoriuscita di sangue vomitato sulla strada.

L’incertezza del fumo che si dissolve nei ripetuti incontri di Ark: labilità dell’orfananza, sentita temuta vissuta. Il vivere l’orfananza distingue il percorso di un opera che fonde in maniera assoluta la “nona arte” con la letteratura, aprendo in sé un percorso del narrare totalmente nuovo. Interviene la parola, breve, asciutta, solo per dare un ulteriore scatto verso l’indefinito, che si rappresenta chiaramente nei tratti di un disegno mai stabile, che si colora tanto velocemente quanto si depura dai colori stessi, che sfuma in sottigliezze cromatiche sincere, sofferte, per poi nascondersi in un tratto semplice, quasi di matita che cerca un ritorno, un rifugio, una serenità negata. Ma l’orfananza preme, la ricerca di essa, ogni frammento della coscienza frantumata in minuscoli pezzi di vetro che riflettono grida di dolore contenuto e severo, e per ogni di essi la matita sembra tracciare colori e linee di confine nuovi, circoscrivendo dimensioni e springionandole nuovamente.

Indefinibile l’opera di Rak&Scoppetta, come il fumo della sigaretta di Ark, opera dura, come le sentenze amare, scevre di qualsiasi illusione che possa risorgere. Sorpresa continua attraverso l’annullamento del proprio linguaggio codice, quando le pagine diventano nere, opera che si scarnifica fino a diventare muta, assenza totale, forse pace. Ma non c’è concessione di sorta. E’ soltanto una dolorosa, assurda mancanza, che ha un sapore terribilmente amaro tra le gengive della bocca, definiti orfani dell’indefinito.

Non cura la lettura di Ark, non concilia, non rasserena. Pretende una lettura che sia inficiata dal dolore, e in sua assenza, lo richiama. Unico linguaggio possibile: il silenzioso dolere.

Ark, palindromo mancato, per poco. Ma è palindromos greco, che corre all’indietro, alla radici della scrittura, alle radici del Fumetto, alla base del dolore dell’esistenza umana, che sfronda tutti i linguaggi delle loro concitazioni, dei loro ridicoli sofismi, per riconsegnarci la genialità, per ricordarci che siamo orfani delle bellezza, che abbiamo tra le mani un libro, che merita questa parola, abusata e stuprata troppe volte. Che siamo di fronte alla chiarezza del genio, assoluto e doloroso. Leggendo Ark, sovviene al pensiero Agota Kristof: “Credo che presto sarò guarito. Qualcosa si romperà in me o in qualche parte dello spazio. Partirò verso nuove altezze sconosciute. Sulla terra non c’è che la mietitura, l’attesa insopportabile e l’inesprimibile silenzio”.

Un Libro, un Fumetto quindi, e noi lettori, con le nostre età ancora sorpresi a perderci in tavole disegnate, cercando di capire a chi appartiene il suono di un sorriso ironico che filtra mentre si sfogliano le pagine.

(Grifo Edizioni)

 

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