Calvi Risorta: come nasce la scoperta della discarica più grande d’Europa. Intervista a Salvatore Minieri di Sergio Nazzaro (Agoravox.it)
Intervistarsi tra giornalisti è pratica da evitare. Diventa autocelebrazione, ma qualche volta è necessario farlo. In questi giorni assistiamo all’esplosione mediatica della (probabile) discarica più grande d’Europa, ovvero l’area ex Pozzi di Calvi Risorta in provincia di Caserta.
Sui grandi giornali nazionali si rincorre la dicitura “una storia raccolta da giornalisti locali”. Come sempre succede, se una storia la segue un giornalista sul e del posto, il giornalismo è locale, non necessita di nome e cognome. Si consegna il giornalista locale all’oblio finché non giungono i grandi media ad affermare la presenza della storia da raccontare, a dare un proprio nome e cognome, solitamente di quello che giunge “dopo che ha capito”, “dopo che scrive”, “dopo che”, insomma, vive nel “dopo sempre e comunque”, ma si intesta tutto prima di tutti.
Ebbene il giornalista locale è Salvatore Minieri, ed è corretto per una volta raccontare la genesi di un reportage, perché se è autocelebrativo intervistarsi tra colleghi, è anche diseducativo che i giornalisti si dimenticano di citare i loro colleghi nel riportare una storia non loro, ma che hanno acquisto “solo dopo”. Minieri ha raccontato la storia della ex Pozzi oltre un anno fa. Un documentario pubblicato in rete che diventa il punto da cui parte l’inchiesta. Minieri oggi continua a raccontare la storia della ex Pozzi e continua a documentare quello che sta succedendo.
Questa intervista cerca di ricostruire nel merito una storia. Non si può più sopportare che il giornalismo sia fatto in poltrone comode e di poi si sfrutti il lavoro di chi invece svolge la propria professione consumando le suole delle scarpe.
E questa storia dimostra che non tutto è stato detto sulla Terra dei Fuochi e non tutto è stato scoperto, ancora.
Come è nata la tua inchiesta sull’area Ex Pozzi, come hai intuito che poteva esserci una storia da raccontare?
«Più che un’inchiesta, questa è la storia di una leggenda bisbigliata e, per viltà congenita di questa terra, mai urlata. Come nei racconti di Anton Čechov, la gente si è comportata al pari di un oscuro e arretrato villaggio ottocentesco: tutti sanno, ma guai a chi denuncia.
Dei rifiuti scaricati nella zona della Pozzi, sento parlare da quando ero ragazzino, dall’inizio degli anni ’80. Ho nella testa ancora le parole di anziani operai che avevano prestato servizio in quell’area industriale: era una continua litania fatta di segreti inconfessabili, di ombre notturne che scaricavano fluidi orribili in una delle terre più fertili della Campania. Qualche anno fa, precisamente nel 2011, con il collega Tony De Angelis e con l’editore Vito Taffuri, iniziammo a studiare alcune vecchie foto aeree, scattate proprio sulla zona Pozzi.
Si notava, di fianco al grande opificio, una splendida vallata, digradante verso un torrente, nel pieno di una pianura quasi del tutto coltivata e rigogliosa. Era, se non ricordo male, una foto del 1969. Nel 2011, appunto, con un drone abbiamo sorvolato la stessa area, scoprendo che sulla vallata fotografata nel 1969 erano sorte delle strane collinette, coperte da vegetazione anomala. Lasciammo stare, a causa di altri impegni professionali e scadenze editoriali, ma rimanemmo convinti di dover lavorare sul quella labile traccia visiva.
L’anno scorso, dopo aver effettuato alcuni sopralluoghi in troupe, abbiamo deciso di ricontrollare la zona e di scavare a una profondità di 50 centimetri in alcuni punti del terreno. La terra che abbiamo trovato in quell’occasione era di ogni colore più innaturale: dall’azzurro, all’arancione, fino a tutte le tonalità del verde acido. Plastica, bottiglie, grandi buste maleodoranti infilate in vari strati di terriccio e poi polveri colorate e strani livelli di terra nera e melmosa. Fu questo il “bottino” immortalato dalla nostra telecamera. In 35 minuti, quelle immagini finirono in rete e ci fu un’esplosione di contatti e visualizzazioni. Da quel momento è partita una scalata inarrestabile per squarciare il velo di omertà e paura sulla zona ex Pozzi.
Quando ho dovuto tagliare – non senza difficoltà umane, sacrifici e diffidenza da parte di tutti – un muro di gomma e silenzio per raccontare i fatti, sono iniziati i miei sospetti. Tutti zitti sulla zona Pozzi, pur bisbigliando negli angoli nascosti dell’esistenza di una discarica».
«La Procura di Santa Maria Capua Vetere ha acquisito il video del nostro reportage e, in tempi straordinariamente brevi, ha deciso di intercludere e porre sotto sequestro tutta l’area Pozzi-Iplave. Grazie al grande spirito di sacrificio e all’altissimo senso del dovere della Forestale, coordinata in queste operazioni dal Comandante Vincenzo Gatta, i nostri sospetti si sono tramutati subito in realtà. Già all’inizio delle operazioni di semplice pulizia della zona, è spuntato un fusto, occultato nel primo stato di vegetazione. Lo scavo sistematico, eseguito sotto il controllo costante del generale Sergio Costa, ha confermato i nostri timori: dove una volta c’era una valle silenziosa e pura, è stato intombato un inferno di scarti tossici tra i più grandi d’Europa, con la sua estensione di oltre 25 ettari».
Che cosa è il giornalismo locale, secondo te?
«La locuzione “giornalismo locale” è un rutto di pigrizia, uno sbadiglio concettuale dei pantofolai della tastiera che in questa terra pascolano tra redazioni, sezioni di partito e feste esclusive, quasi sempre organizzate da politici paganti. C’è un libro bellissimo di Stefano Bartezzaghi, “Non se ne può più” che chiarisce lo status mentale di questi cronisti perennemente assopiti: “Da dieci anni, certo giornalismo è fermo alla locuzione ‘bomba d’acqua’ e in quel pantano affoga ogni dignità della professione”. Meraviglioso. Capisco gli orizzonti limitati di alcuni cronisti: per loro è difficile scrivere che io e i miei colleghi siamo giornalisti che vivono e studiano questa terra con sacrifici e impegno e allora risulta più comodo scrivere “giornalisti locali”, al pari di un prodotto tipico, di quelli che si trovano negli Autogrill.
Non nascondo il mio timore, però. Credo che dietro la locuzione “giornalisti locali” possa ribollire una malcelata manovra per sminuire, offendere con armi grossolane. Il perché? Semplice come il modo di pensare di questi Pulitzer in panciolle: conosciamo colleghi che da anni scrivono per testate anche importanti, assolutamente distanti da quel concetto chiamato inchiesta.
Nei confronti miei e dei colleghi che mi hanno aiutato sul reportage Pozzi, poi, è nato un cordone sanitario, una corsa a cancellare nomi e identità. In alcuni casi si tratta di colleghi appartenenti allo stesso gruppo amicale o, peggio ancora, a qualche gruppo di “impegno civile” aglio e olio. Roba da comari sotto un portone di provincia. Per quanto ci riguarda, il giornalismo è militante e impolverato, spesso impastato di sudore e rospi acidi da inghiottire. Che ne può sapere uno che scrive “giornalista locale” dell’amarezza di dover vivere spalla a spalla nella stessa città con camorristi dei quali si denunciano le malefatte ogni giorno?».
Hai trovato diffidenza verso questa tua inchiesta, o peggio accuse di manipolare la realtà?
«Diffidenza è un eufemismo. Ho scritto stamattina di essermi trovato ad agosto, con 40 gradi e l’aria resa irrespirabile dai rifiuti, nell’area ex Pozzi con la collega della Rai, Stefania Battistini, per un reportage sulla Terra dei Fuochi: provavo a contattare altri colleghi e qualche amministratore via cellulare, ma tutti rispondevano di essere al mare e dicevano di non preoccuparmi perché nella Pozzi, in fondo, non si sarebbe mai trovato nulla. “Ma vattene in ferie, tu hai la fissazione con questi rifiuti”, mi dicevano.
Ecco, forse è proprio in questa cialtroneria collettiva che nasce la possibilità di spadroneggiare della camorra e delle ecomafie che qui, come ormai tutti quelli sdraiati al mare ad agosto scorso hanno capito, hanno creato una Chernobyl campana. Sulla manipolazione della realtà, avrei tanto da dire. Ci sono politici che oggi fanno i maratoneti per prendersi i meriti della scoperta del disastro Pozzi e scattano davanti alle telecamere per cianciare del loro senso di “orrore e scandalo” davanti ai rifiuti intombati. Sono gli stessi che non hanno detto una parola, non hanno scritto un solo comunicato, e nemmeno commentato sui social, quando il Governo ha scippato circa 10 milioni di euro alla bonifica della Terra dei Fuochi per darli all’Expo di Milano e alla sicurezza della manifestazione (le abbiamo viste tutti le immagini dei Black Bloc che devastavano la città con una facilità da fanciulli in gita). Se questa non è manipolazione della realtà, ditemelo voi».
Ti sorprende che sia la più grande discarica d’Italia?
«No, lo sapevo, lo immaginavo. Studiando le immagini zenitali che il drone ci trasmetteva sull’ipad (strumentazione che ogni giornalista avrebbe potuto usare), avevamo notato l’estensione delle collinette anomale. Quella, lo dicevamo da quattro anni, sarebbe stata la più grande discarica abusiva d’Italia. Ci sbagliavamo, è la più grande d’Europa e, lasciatemelo dire, la più “internazionale”. Negli strati di intombamento si parlano tutte le lingue europee, a leggere le etichette sui sacchetti. Dalla Francia alla Spagna, passando per tutte le città italiane che hanno rifornito il polo industriale Pozzi. I sacchetti e i fusti francesi mi spaventano più di tutti: si tratta di materiale di una società che avrebbe collaborato anche con una centrale nucleare. Un intreccio che molti politici non riuscirebbero a capire nemmeno con 5 anni di corsi intensivi. E’ questo il mio timore: siamo governati da protagonisti di un’operetta tragica, totalmente scollati dalla realtà delle cose. Personaggi in cravatta e vestiti su misura che ancora blaterano di amore per il territorio. Questo amore tanto decantato, evidentemente, non esisteva nei tre decenni di sversamento alla Pozzi».
Che cosa succederà ora, ci sarà una bonifica, una messa in sicurezza?
«Non credo a una bonifica immediata, anzi, ho il sospetto che le procedure saranno lunghe e complesse. Io posso solo fare appello a tutti i cittadini, un invito ad essere presenti e a far parte di un programma di cittadinanza attiva degno di questo nome. Io sono ottimista per natura, ma so bene di vivere in una società che mi ricorda, ogni giorno di più, un episodio narrato da Stefano Benni. “C’è gente che litiga violentemente per un parcheggio al mare o al centro commerciale, manco fosse l’ultima polla d’acqua potabile nel Magreb”. Diciamoci la verità, noi litighiamo per molto meno, siamo diventati peggio dei protagonisti bislacchi di Benni. Il nostro contenitore è un centro commerciale o la spiaggia esclusiva da raggiungere in SUV. A noi non interessa la prova reattiva sui rifiuti tossici sotto casa nostra, ma solo la prova costume. Siamo polli in batteria. Altro che battaglie civili. La camorra, al solito e per molti anni ancora, ringrazierà e farà ciò che vuole».