La casa di Monica
Le connection house, per la prima volta una sguardo dentro un mondo sconosciuto
Lo sfruttamento di giovani donne africane sulle strade del litorale Domiziano è una realtà consolidata da decenni. Le donne dalla pelle nera hanno resistito alle invasioni delle bulgare, russe, ucraine, anche se i pezzi di strada vengono contesi sempre di più tra le diverse mafie straniere presenti sul territorio. La possibilità di scopare senza preservativo per un leggero sovrapprezzo, ha acceso e continua ad accendere le fantasie dei camionisti di passaggio, di agenti di commercio e di chiunque si trova a guidare sulla strada Domiziana e i suoi dintorni.
Una vita di strada ripresa, indagata, filmata costantemente, eppure lo squallore umano e il suo dolore permangono intaccati nel consumo quotidiano di carne e piaceri. Ogni fermata del M1, l’autobus che collega Mondragone a Napoli è una stazione dove ci si approvvigiona di sesso, sotto gli occhi di tutti. Giovani donne che sperano di diventare madame a loro volta e guadagnare, dopo aver saldato il debito contratto per venire in Italia. Un circolo vizioso. La domanda e l’offerta: se ci sono tante prostitute è perché qualcuno le scopa. Ho appuntamento con Sule, ad un incrocio di Pescopagano.
Sule è un senegalese da quasi dieci anni in Italia, lavora come muratore nella provincia di Napoli: “oggi mi volevano vicino al lavoro, ma vedi piove, e la mia macchina ha i fili scoperti, mica sono scemo, gli ho detto a quello che oggi non lavoro, se poi cade la pioggia sui fili che faccio?”. Ma Sule è soprattutto la chiave per entrare nella comunità africana, nei luoghi, nelle case che sono chiuse agli italiani. Andiamo a trovare un suo amico.
La casa è una sorta di discarica, anche una macchina che starebbe meglio in uno scasso stracolma di cose, una sorta di armadio su quattro ruote. La puzza è intollerabile. Sono giorni freddi e le finestre rimangono sigillate. La cucina è scorticata, le pareti ormai muffa per l’umidità che penetra inesorabile. Sule risolve problemi, cerca lavori per i suoi connazionali, tiene il polso delle situazioni. Le porte si aprono una dietro l’altra senza nessun problema, lui garantisce la persona che accompagna. Conosce ogni palmo di strade dimenticate anche dai bianchi.
Il giro è finalizzato ad arrivare a casa di Monica, una prostituta diventata madame, ma soprattutto gestisce una “connection house”, ovvero una casa chiusa, ma aperta solo per i giovani africani. Monica, e con lei tante altre ragazze di strada hanno organizzato la propria attività espandendola. Sule è attaccato al telefono, una chiamata dopo l’altra. Convincere Monica non è facile. La paura è sempre la stessa: essere identificati, espulsi, non avere i documenti. Dell’uomo dalla pelle bianca non ci si può mai fidare. La pioggia e il freddo diventano sempre più pungenti. Anche al Sud c’è l’inverno duro. Sule mi parcheggia in un supermercato abusivo. Bussa ad una porta, stringe mani a tutti. Cerco di salutare tra l’inglese e l’italiano, e il dialetto che fa comprendere tutti. Mi indicano una poltrona. Mi siedo, rigido. Una stufa a gas funziona al massimo.
La televisione satellitare è sintonizzata su un canale inglese, una partita di calcio trasmessa in un giorno feriale di febbraio. Alle pareti le credenze sono piene di alimenti di base: olio, pasta, pomodori in scatola, bottiglia d’acqua, liquori, scatole di biscotti. Si passo per un saluto e si fa la spesa. Unico bianco nella casa. Sule mi sorride: “mettiti comodo vado a parlare con Monica e torno subito”.
Mi osservo intorno. Disagio. Non faremmo mai entrare un nero in casa noi bianchi. Semplice verità. Sono un intruso eppure mi offrono dell’acqua, dei biscotti. Ci si passa l’accendino, le sigarette riempiono di fumo la stanza, umida come tutte le case di Pescopagano. Entra ed esce gente in continuazione. Mi osservano, un attimo di straniamento, qualche parola scambiata nei dialetti tipici nigeriani e mi viene rivolto un sorriso, un saluto. Non sono un pericolo, just a journalist. Nessuno è indiscreto, le domande e le risposte sono poche. Di dove sei, da quanto conosci Sule, cosa scrivi, non dirai niente di questo posto mi raccomando.
Qui non si fa del male a nessuno, si vende qualche cosa per tirare avanti, perché c’è tanta fame non c’è lavoro, pochi soldi, tanta crisi. I napoletani sono buoni alla fine dei conti, nessuno è cattivo per davvero, non ci si fida, ma siamo tutti messi sotto da politica e camorra. Anche gli africani hanno questo assunto, ma poco conta, bisogna sopravvivere. Relax, la parola che mi viene rivolta più spesso. Qui nessuno fa male a nessuno, sei ospite.
Sono colonizzatore, colonizzato, soltanto un intruso, e questo è ancora Sud, o Equatore anche se fa freddo? Intorno una micro economia che si muove senza sosta. Anche nelle condizioni più provate si compra e si vende. Qui i centesimi contano, non vengono posati come souvenir negli svuota tasche di casa. Sule rientra, possiamo andare. Abbiamo il consenso di Monica. Saluto, ringrazio stringendo le mani. “Quando vuoi torna, passa di qua, bussa ed entra, ci sono tante storie che possiamo raccontare”.
La casa di Monica è appena dietro l’angolo. Soltanto una parete ci divideva. Una palazzina bassa a tre piani. Un’audi A3 con la ruota bucata parcheggiata sotto un telone. “Devo farla aggiustare, quella è la mia macchina buona per quando vado alla chiesa. Poi ne ho un’altra, una Peugeot vecchia, piccolina per girare ogni giorno”. Monica mi porge la mano.
Entro nella nuova frontiera della prostituzione del litorale Domiziano. La casa è stata trasformata in una sorta di pub, night club, ristorante di fortuna. Un luogo accogliente. La stanza è piena di tavoli, ordinati come in una tavola calda. Sedie bianche di plastica e sedie di formica. Alle pareti ci sono luci colorate, natalizie. Servono a fare atmosfera. Un tono di blu si diffonde per tutta la casa. Sui tavoli piccoli mazzi di rose di plastica ad abbellire. Bicchieri di plastica, tovaglie di plastica colorata. Ci sediamo. Ci sono un paio di ragazzi di colore.
Da una porta sul fondo escono due amiche di Monica, lavorano con lei. Qui non si scopa soltanto. Puoi mangiare, fare colazione, bere un bicchiere di whiskey. “Lontana dalla strada è più sicuro, qui abbiamo a che fare solo con i nostri connazionali e basta. Sono bravi ragazzi che lavorano tutto il giorno e cercano di avere un poco di svago o un piatto caldo.
Facciamo tutto noi, sia in cucina che in camera da letto. Qui non abbiamo a che fare con bianchi scemi, pazzi che ti mettono anche il coltello alla gola pur di non pagare, qua non ci sono violenti. E poi non c’è la paura dei carabinieri, della polizia, mica facciamo qualcosa di male? Se voglio a casa mia posso fare quello che voglio. Si vendiamo delle cose, che però abbiamo comprato al supermercato, non è un reato grave”.
Monica ha il piglio dell’imprenditrice: decisa, determinata. Ad un certo punto mentre parliamo si alza la maglia, sul fianco sinistro una cicatrice profonda: “Questa è una coltellata, ed anche questa, qui vedi più in mezzo alla schiena. Quando sei una donna di colore, devi affidarti ad un uomo, non puoi fare niente da sola. Quando sono arrivata in Italia, volevo fare un lavoro normale, parrucchiera che lo so fare. Poi ho capito subito che sarei finita in mezzo alla strada e non puoi ribellarti, se ti hanno fatto il rito non puoi tornare indietro. Se io scappo, mi uccidono, fanno del male alla mia famiglia. Il rito è pericoloso e solo uno stregone ti può liberare, ma quasi nessuno lo fa. Mi sono fatta piacere la strada, che puoi fare? Lamentarti, io non sono una donna bianca. Non avevo documenti, permesso, niente e neanche soldi. Allora ho lavorato, giorno e notte, e alla fine ho pagato il mio debito. Questo è un buon lavoro, non è male, fai buoni soldi e poi ho un figlio che devo mantenere”. Mi indica una foto alle pareti. Sono suoi ritratti, ma anche delle sue amiche, in una foto abbraccia un bambino. Sembra quasi un catalogo appeso al muro: si osserva, si sceglie. “Ho solo 24 anni ma so come funziona la vita, qui non è male. Ora, almeno. Quando chiudo la porta la porta è chiusa, nessuno mi può dire niente. Sono tutti gentili perché trattiamo tutti bene e poi i nostri amici vogliono solo un poco di tranquillità, quando la vita è dura non vuoi sempre avere guai. Qui non c’è droga, niente, non vogliamo problemi. Le mie amiche lavorano per me ed io mi prendo cura di loro, qui non manca nulla, anche loro hanno dei figli e delle famiglie a cui devono pensare, tu mi capisci?”.
Monica si alza e mi fa cenno di seguirla. Saliamo le scale vicino all’entrata, casa a doppio piano. Sopra ci sono le camere, dove vivono e lavorano: “vedi è tutto normale, se un amico vuole fare l’amore con me, va bene, poi lui mi lascia un regalino, mica è problema, non è crimine questo. Vedi tutto pulito, lavato, non c’è cattivo odore, non è come in mezzo alla strada che si sta sempre schifo. Li devi prendere tutti quelli che passano, se no la madame ti bastona la sera e ti fa male, ti apre la carne. Qui vieni solo se conosci, solo se un amico ti ha presentato, tu sei amico di Sule perciò sei qui dentro.”
Scendiamo di nuovo al primo piano. Al centro la televisione a schermo piatta trasmette un film africano in dvd, una sorta di thriller melodramma con i contorni dei 16:9 distorti, una copia pirata. Sulle scale si siede una delle amiche di Monica, ha un piatto di plastica con del cibo, il pranzo del giorno. L’aria che si respira è serena, tranquilla. In un mondo migratorio a maggioranza maschile, queste donne, dopo aver subito le peggiori brutalità, sembrano avere il pieno controllo delle loro vite. Gli sguardi sono decisi, duri. Io non conosco il dolore di un coltello nel fianco. Di continue violenze. Quanto ci appartieni il racconto, quanto viene preso e basta per riportarlo come se fosse quasi vita vissuta. Non è la nostra vita, ma quello di puttane di strada che lottano sempre, il minuto prima di entrare nelle loro vite e anche il minuto dopo che si va via. Non c’è mai sosta.
“Che cosa è la sicurezza? La mia vita è questa. Mi piacerebbe alzarmi la mattina senza paura, ma lo devi accettare, questa è la vita qua e non si sta tanto male. Almeno c’è una casa, ci sono gli amici, c’è qualcosa da mangiare, c’è mio figlio che spero non rimanga qui a Pescopagano, Castel Volturno, deve andare via, deve emigrare su al nord, dove ci sta il lavoro buono quello pulito che ti pagano. Qua non c’è futuro. Che gli dirò quando cresce mio figlio? Che la mamma lo vuole bene e ha fatto quello che doveva fare per dargli un futuro. Vedi tu pensi che io sfrutti le mie amiche, non è così. Loro stanno bene qui, non le costringo. Io non uso i coltelli per convincere qualcuno. Loro se vogliono stare stanno, ma se vogliono andare vanno via, ma dove la trovano una casa così, un posto così tranquillo? Non ci sono sempre scelte in questa vita. Per voi bianchi forse, ma non per chi ha la pelle nera. Qui sembra la Nigeria, ma non lo è. Non hai idea di che posto è. Poi se tu scrivi che fai? Ci vai, stai qualche giorno e vai via. E’ un’altra cosa doverci vivere, starci per davvero. Poi partire e stare in un posto che non conosci. Per te è normale parlare con me, perché tanto ci stanno tante puttane qui in giro, ma è normale per me parlare con te, non ti conosco. Non conosco questo posto per davvero, io sono nata da un’altra parte”.
Il tempo è scaduto, Sule mi batte sulla spalla, stanno arrivando i clienti di Monica, devono mangiare, vogliono stare tranquilli, l’uomo bianco è un problema, non fa sentire a loro agio nessuno. Saluto Monica, mi stringe la mano forte: “ricorda qui non si fa male a nessuno, qui non è niente cattivo, scrivilo, cerchiamo solo di sopravvivere, di farci compagnia e di volerci bene, quando sei straniero questo non è reato, se non ci vogliamo bene noi, ci vuole bene?”.
In strada Sule mi guarda: Monica è dura, molto brava, lei ha tanti soldi, lavora tanto e non ha solo questa casa, ne ha altre due. E’ giovane ma molto decisa, non si ferma mai davanti a nessuno e poi è vero tratta bene le sue amiche, una di quelle è sua cugina. Vedi da lavoro a tutti. Ma non la devi valutare, conosce la strada e sa come usarla. E’ una madame vera”.
(capitolo estratto da “Castel Volturno reportage sulla mafia africana”, Einaudi 2013)