La recensione di Castel Volturno (Einaudi) a cura di Francesco Durante
Ad Arzignano, importante cittadina della provincia di Vicenza, gli immigrati, per la stragrande maggioranza di pelle nera, sono oltre il 21 per cento della popolazione. A Castel Volturno, che è un po’ più piccola, gli stranieri sarebbero ufficialmente tremila, poco più del 10 per cento. Uno dovrebbe inferirne che non nella ex Campania Felice, bensì nel Veneto leghista sia innescata un’eventuale «bomba etnica». Ma non è così. Perché nel Vicentino gli immigrati sono ben integrati e hanno lavori regolari nel comparto conciario. A Castel Volturno, invece, non si sa bene che cosa facciano, di cosa campino, né — siccome lì, alla foce del Volturno, le statistiche hanno un valore più che altro platonico — quanti siano per davvero. Tanto che c’è chi può spingersi a calcolare che sono il 50 per cento della popolazione totale. È per questo che Castel Volturno è oggi una specie di capitale nera d’Italia. Ma naturalmente non tutti gli africani sono uguali, e benché da noi si stenti ancora a distinguere un senegalese da un nigeriano, un ghanese da un maliano, le differenze esistono, e sono profonde fino a poter diventare motivo di conflitto e, per conseguenza, di chiusura all’interno di cerchie o di clan etnici a fini di difesa. La storia dell’emigrazione insegna che proprio la necessità di stare uniti per fronteggiare il pregiudizio razzista è spesso all’origine delle tante mafie sparse nel mondo. E ovviamente Castel Volturno non fa eccezione.
LA BIOGRAFIA – Sergio Nazzaro, giornalista specializzato in inchieste spericolate (Dubai Confidential, 2009; MafiAfrica, 2010) ci spiega come la legge del clan d’origine sia spietata fin dal momento in cui i barconi carichi di clandestini disperati salpano di notte dalla Libia puntando su Lampedusa o le coste del Mezzogiorno. È già li che si solidifica un tipo di solidarietà che altro non è bisogno di sopravvivenza. Quando poi il fiume di disperati si sparpaglia per l’Italia, un rivolo consistente arriva a Castel Volturno, per alimentare un’economia che con pudibonda inflessione potremmo definire «informale», e che in realtà è il disastro di un disordine senza speranza, senza possibilità di occupazione e integrazione, dove soltanto le organizzazioni criminali possono prosperare. Quelle tradizionali del luogo, e quelle importate, tra le quali tutte c’è una rete di mobili rapporti, di alleanze difficili da seguire, di solidarietà misteriose e ramificazioni magari verso l’Est europeo e il Sudamerica, ed esplosioni di inaudita violenza come quella che il 18 settembre 2008 condusse la banda del casalese Giuseppe Setola a far strage — sei morti — in una sartoria africana. Droga, prostituzione, contrabbando le attività più redditizie, e alle spalle di tutto la complessità di culture d’origine dove trovano spazio riti voodoo e culto del cargo, riduzione in schiavitù e altre crudelissime pratiche, rapimenti, chiese fondamentaliste cristiane ecc. ecc.
L'”AGROCEMENTO” – In quell’ «agrocemento», come lo chiama Nazzaro, che è il panorama postatomico di una domiziana che ha visto definitivamente tramontare il sogno del turismo e la riconversione dell’orrenda edilizia che doveva sostenerlo, l’autore insegue storie e figure, con la volontà di spiegare più a fondo di quanto non si riesca a fare nei pochi giorni in cui i fatti che lì accadono riescono a raggiungere le cronache nazionali, per ricadere subito dopo nel dimenticatoio. Nazzaro, come in tutti i suoi libri, anche qui è in cerca di storie forti, con un gusto terribilista che può non piacere. Gli si deve comunque riconoscere abbondanza di documentazione e una sua particolare abilità nel «cucire» i suoi materiali cronistico-antropologici avendo sempre presente un programma che, pur fondato esclusivamente su dati reali, da quelli tende sempre a partire per tangenti ostinatamente narrative.
07 maggio 2013 © RIPRODUZIONE RISERVATA