Il “Castel Volturno” senza lieto fine
di Antonia De Francesco
“Castel Volturno”, chiunque non conosca questo comune in provincia di Caserta, probabilmente penserebbe ad un luogo “fatato”, s’è vero che il suo nome contempla un elemento tipico della fiaba. Ma utopie e progetti e, soprattutto, il tanto auspicato lieto fine che accoglie ogni castello non è quello che riguarda “Castel Volturno”, almeno non per ora.
Lo racconta dettagliatamente Sergio Nazzaro, nel suo “slow reportage” dall’omonimo libro, edito Einaudi, in cui ricostruisce le mille realtà e tanti intrecci che nascondono le “fondamenta e l’acqua” di ogni fortezza che si rispetti.
Tante, troppe prospettive in quella terra si sono dissolte in scenari illusori: Baia Verde, Villaggio del Sole, Villaggio Coppola, Bagnara, luoghi di ambizioni costruttive che hanno finito col produrre l’esatto contrario, causando solo una speculazione edilizia che oggi si offre a riempire un quadro di scempio eco-ambientale, che spesso offre ospitalità alle comunità africane di immigrati in Italia.
Perché Castel Volturno non è solo il “regno” dei campani, ma la maggior percentuale di abitanti è costituita dalla fetta di extra-comunitari che, giunti nella Penisola con il miraggio della “vita facile”, finiscono con il ritrovarsi in condizioni altrettanto disumane, costretti a volte, benché esista sempre il libero arbitrio, a vivere nel e del malaffare che ha contagiato anche quelle terre, forse più di altre.
Ma “Castel Volturno”, libro a cielo aperto, non ha solo pagine di tragedie, di stupri e prostituzione, di spaccio, overdose, di morti e feriti, a volte “Palme di Dio” , spesso tra vecchi compagni di scuola – o semplicemente tra conoscenti.
Ci sono anche truppe d’assalto a salvare la fortezza. Sempre pochi, sempre impegnati: carabinieri, finanzieri, poliziotti, che ad ogni sequestro di droga pesano i chili e non i grammi di stupefacenti, che devono rintracciare quotidianamente l’identità di una morte sospetta, pattugliare e vigilare sul territorio, nonché controllare i detenuti domiciliari, che si aggirano mediamente intorno ai 300.
Ci sono Anna Cecere, la cui storia va oltre “I vestiti nuovi dell’imperatore”, producendo abiti per tutto il mondo, con affascinanti stoffe africane non “trasparenti”, importate regolarmente, che prova a rilanciare l’economia de “Il villaggio” con la moda e la collaborazione di donne nigeriane, che ricoprono una posizione lavorativa lecita.
Ci sono indagini, come “Venus”, ci sono resoconti fotografici, come quello di Sergio Nazzaro, che tentano di fare di “Castel Volturno” un “audiolibro”, intessendo un reticolo di voci narranti, così che chi non voglia leggere, possa almeno ascoltare, il rumore del declino e del dolore.
Possa almeno immaginare l’odore di una terra rasa al suolo dalla Camorra, il dramma di un “castello” senza il suo lieto fine.
(Antonia De Francesco)