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Chi era davvero il giudice Rosario Livatino

Intervista con Alfredo Mantovano

Rosario Livatino, ammazzato dalla Stidda il 21 settembre 1990 sulla SS 640 Caltanissetta-Agrigento, dichiarato beato il 9 maggio 2021. Definito “giudice santo”, oppure “giudice ragazzino”, Livatino era un giudice senza aggettivi, neanche quello di antimafia. Lavorando scrupolosamente sul suo territorio, aveva compreso i meccanismi della mafia e non solo.

Aveva compreso la gravità della corruzione, delle false fatturazioni, del giro di affari che portava una piccola cittadina siciliana come Canicattì con 40mila abitanti ad avere diversi sportelli bancari e sedi principali. Ne discutiamo con Alfredo Mantovano, Consigliere della Suprema Corte di Cassazione, vicepresidente del Centro studi Rosario Livatino che, con Domenico Airoma Procuratore della Repubblica di Avellino e Mauro Ronco Professore emerito di diritto penale, presidente del Centro studi Rosario Livatino, ha scritto il libro “Un giudice come Dio comanda“. 

La beatificazione del giudice Rosario Livatino che cosa rappresenta per la magistratura, per la società civile e per chi ogni giorno prova a cambiare i destini di territori soffocati dalle mafie e dalla corruzione?

Dapprima quale pubblico ministero, poi – nell’ultimo anno di vita – quale componente di un Collegio giudicante, Rosario Livatino ha svolto indagini e ha pronunciato sentenze a carico degli esponenti mafiosi del territorio, inclusi quelli che vivevano a pochi metri da casa sua, e ha disposo il sequestro e la confisca dei loro beni. Lo ha fatto in un Tribunale che, all’epoca, aveva cinque posti scoperti su undici di organico, con mezzi materiali limitati, senza tutela personale, applicando le poche scarne norme di repressione, all’epoca, della criminalità mafiosa.

Non poteva fruire delle propalazioni dei “pentiti”, né poteva contare su un obbligatorio coordinamento di indagini, perché non erano ancora state approvate le leggi che hanno introdotto gli uni e l’altro, né su consistenti unità di polizia giudiziaria; il contesto sociale nel quale viveva era ostile e omertoso, certamente non di collaborazione con le Istituzioni giudiziarie.

Nonostante queste (e altre) profonde differenze rispetto al contesto attuale, Livatino ha incarnato un modello di magistrato che non cerca scorciatoie. Ogni suo provvedimento rivela dedizione alla ricostruzione del fatto, approfondimento del diritto, così accurato da permettergli la più corretta applicazione della norma al caso concreto di volta in volta sottopostogli, ripudio di tecniche redazionali da “copia e incolla”, rispetto rigoroso delle garanzie degli imputati e delle prerogative del difensore.

Se oggi fosse in servizio – la data di nascita glielo avrebbe permesso ancora per un anno e mezzo –, per un verso sarebbe estraneo a chat tipo quelle animate da non pochi magistrati, il cui contenuto è stato riversato sulle pagine dei giornali, per altro verso osteggerebbe il sacrificio della giustizia sull’altare dell’ideologia o di presunte supremazie etiche.

Ecco quanto egli diceva nella conferenza Il ruolo del giudice in una società che cambia, da lui svolta su invito del Rotary club di Canicattì, il 7 aprile 1984: «L’indipendenza del giudice non è solo nella propria coscienza, nell’incessante libertà morale, nella fedeltà ai princìpi, nella sua capacità di sacrificio (…) ma anche nella sua moralità, nella trasparenza della sua condotta anche fuori le mura del suo ufficio, nella normalità delle sue relazioni e delle sue manifestazioni nella vita sociale, nella scelta delle sue amicizie, nella sua indisponibilità ad iniziative e ad affari, tuttoché consentiti ma rischiosi, nella rinunzia ad ogni desiderio di incarichi e prebende, specie in settori che, per loro natura o per le implicazioni che comportano, possono produrre il germe della contaminazione ed il pericolo della interferenza; l’indipendenza del giudice è infine nella sua credibilità, che riesce a conquistare nel travaglio delle sue decisioni ed in ogni momento della sua attività.

(…) Il giudice di ogni tempo deve essere ed apparire libero ed indipendente, e tanto può essere ed apparire ove egli stesso lo voglia e deve volerlo per essere degno della sua funzione e non tradire il suo mandato».

Appena dopo l’omicidio di Livatino, seguirono numerose polemiche. Dalla minaccia di dimissioni di massa dei magistrati, all’infausto appellativo di “giudici ragazzini”; dopo oltre 30 anni da quegli accadimenti, che cosa rimane di quei giorni e di quelle polemiche?

Al momento della morte, il 21 settembre 1990, Rosario Livatino, 38 anni ancora da compiere, lavorava ad Agrigento da 12 anni ed era il punto di riferimento dei colleghi dell’ufficio, in virtù della sua saggezza e della sua preparazione: il contrario di un “giudice ragazzino”, come ancora adesso lo qualifica chi ha scarsa conoscenza del suo profilo. L’espressione fu adoperata in chiave polemica nei confronti dell’allora Presidente della Repubblica, Francesco Cossiga: in realtà, questi l’aveva a sua volta evocata per segnalare l’anomalia di un accesso alla funzione di magistrato anche a 24/25 anni (all’epoca possibile), affiancata dal frequente affidamento di poteri assai incisivi. Il tempo trascorso non ha portato con sé saggezza per evitare scontri così acuti, e per affrontare in modo equilibrato i problemi nell’ordinamento giudiziario, che oggi appaiono ancora più consistenti rispetto a 30 anni fa.

Personalmente, mi ha sempre colpito nel percorso professionale di Livatino come fosse estremamente attento alla corruzione, al giro di false fatturazioni, di come avesse compreso quanto la corruzione fosse una faccia della mafia, e in ciò risiedeva la sua forza. Pensa che questa sua visione, ampiamente in anticipo sui tempi, gli sia stata pienamente riconosciuta ed oggi compresa?

Le pubblicazioni dedicate a Livatino hanno raramente approfondito il suo profilo di magistrato. Col collega Domenico Airoma e col prof Mauro Ronco abbiamo provato a tratteggiarlo nel libro, pubblicato da poco, Un Giudice come Dio comanda, ed. Il Timone, utilizzando quello che emerge dalle sentenze di merito dei tre tronconi processuali dedicati al suo omicidio, e dai provvedimenti da lui scritti nel suo ultimo anno di vita, quando svolgeva la funzione di giudice, recuperati grazie all’aiuto della Commissione parlamentare Antimafia. Del fenomeno mafioso nel suo territorio Rosario ha mostrato una conoscenza certamente molto avanzata rispetto a quel momento storico. I Comuni della provincia di Agrigento con il più forte indice di presenza mafiosa, e con pesante contrapposizione fra cosche “tradizionali” e cosche “emergenti”, erano Canicattì, Palma di Montechiaro e Porto Empedocle. In un decreto di applicazione di sorveglianza speciale (n. 21/90 MP del 23/07/1990 a carico di Alzalone Giovanni e altri) così Livatino, che ne era l’estensore, descriveva la realtà di Palma di Montechiaro: «una cittadina profondamente oppressa da questa deteriore manifestazione della sua convivenza sociale, manifestazione che, nella sua latitudine temporale e nel forte impatto emotivo sulla pubblica opinione che l’accompagna, appare averla permeata al punto da condizionare inevitabilmente espressioni ed abitudini di vita collettive». Nella sola Canicattì – come si evince dal verbale della seduta del Comitato provinciale per la sicurezza tenuta nella Prefettura di Agrigento il 5 aprile 1991 – su una popolazione di circa 40.000 abitanti vi erano ben sette sportelli bancari, e fino a pochi anni prima vi erano quattro sedi centrali di banche locali, due delle quali poi assorbite in istituti nazionali. Il che rinvia, unitamente alla pericolosità delle cosche contrapposte, a una importante capacità di movimentazione di denaro, e quindi una elevata potenzialità corruttiva, della quale Livatino aveva piena consapevolezza.

La mafia in Sicilia ha ammazzato don Pino Puglisi, la camorra don Peppe Diana, un vero e proprio attacco alla Chiesa; eppure, nell’immaginario comune c’è questo legame forte tra mafia e religiosità, come lo si può spezzare definitivamente?

Nei territori di tradizionale presenza e radicamento le organizzazioni di tipo mafioso cercano il consenso della popolazione, per ricavarne tutela, indisponibilità a collaborare con l’Autorità giudiziaria, protezione per i latitanti. L’appropriazione dei simboli religiosi e la vicinanza alle manifestazioni del fervore popolare, in aree nelle quali la Fede, nonostante tutto, è parte della vita quotidiana, sono funzionali al consolidamento di un contesto diffuso.

Uno degli eventi storici che ha contribuito a cambiare la sensibilità verso le mafie è accaduto il 9 maggio 1993, col discorso di San Giovanni Paolo II nella Valle dei Templi, ad Agrigento. Nei confronti dei mafiosi egli fu duro come mai lo era stato prima: «Questi che sono i colpevoli che disturbano questa pace portano sulla loro coscienza tante vittime umane. Devono capire, devono capire che non si permette di uccidere degli innocenti. Dio ha detto una volta: Non uccidere. Non può l’uomo, qualsiasi uomo, qualsiasi umana agglomerazione, qualsiasi mafia, non può cambiare e calpestare questo diritto santissimo di Dio». Nel pronunciare il termine “mafia”, la condanna del Pontefice fu chiara e senza scampo: pose la mafia in conflitto con il “diritto” alla vita, che è “santissimo” perché, prima dell’uomo, “è di Dio”. La sola strada da lui lasciata ai mafiosi era la conversione, ma il “Convertitevi!” apparve un ordine più che una esortazione: il richiamo a questa necessità fu solenne – «nel nome di Cristo crocifisso e risorto» –, con l’ammonizione ai “colpevoli” che per loro «verrà il giudizio di Dio!».

Quelle parole hanno segnato uno spartiacque, e al tempo stesso un monito a non strumentalizzare i simboli della Fede in chiave di rafforzamento dell’egemonia mafiosa sul territorio, svilendo le forme della devozione popolare. E hanno rafforzato la coscienza di una presa di distanza netta.

La tensione antimafia di un magistrato come Livatino, esiste ancora oggi? Ci siamo persi qualcosa lungo il cammino, oppure si conserva la memoria del coraggio, ma non si agisce più come chi ha rischiato anche la propria vita per i valori di una società libera dalle mafie?

Come è improprio riservare a Livatino la qualifica di “giudice ragazzino”, così è riduttivo far coincidere la sua figura soltanto con quella di un magistrato “antimafia”. Rosario era un magistrato senza aggettivi, che non ha cercato né tutela correntizia né tutela ideologica, anzi ha tenuto a distanza l’una e l’altra. Nella conferenza prima citata egli rifiutava il modello di magistrato che sposa una posizione per ragioni ideologiche, in quanto «imprimerebbe a sé stesso e ai propri compiti dei caratteri e delle finalità totalmente estranei a quello che è il prototipo dell’interprete giudiziario nel comune sentire sociale come figura super partes e tali da far seriamente pensare ad un vero e proprio tradimento nei riguardi di quei valori la cui tutela la nostra Carta Costituzionale affida al giudice». Da tempo e da più parti si sostiene che il modello di magistrato da recuperare non sia quello di un interprete confinato nella lettera del dato normativo, bensì – dal più periferico dei Tribunali alla Corte di Cassazione, e fino alla Corte costituzionale – quello di un giudice “sensore sociale”, pronto a conferire veste giuridica a istanze ideologiche e a desideri, regolatore dei conflitti fra soggettività tutte impegnate nella propria autoaffermazione. Al fondo vi è una visione impregnata di individualismo relativistico, secondo la quale il giudice è chiamato ad assecondare i cambiamenti, eliminando gli ostacoli ai pretesi mutamenti sociali.

Il problema era ben presente al giudice Rosario Livatino: «(…) non vi può essere relazione alcuna fra l’immagine del magistrato e la società che cambia, nel senso che la prima non dovrà subire modificazione alcuna, quali che siano i capricci della seconda (…)». In che cosa consistono questi “capricci”? Si circoscrivono a un àmbito solo affaristico o hanno una portata più ampia, tale da ricomprendere quei rivolgimenti, riflesso del desiderio di cambiare le coordinate dell’umano? Il “sistema” non è solo quello, alzato alle cronache, fatto di scambi e di spartizioni, di nomine e di appartenenze. Esiste un “sistema” più articolato e profondo, che mette insieme non soltanto magistrati, esponenti di partiti politici e affaristi, bensì pure giudici di corti sovranazionali e di corti di altre Nazioni, maitre à penser, accademici, gestori dei circuiti dell’informazione, con l’obiettivo di cambiare non tanto la società, quanto l’uomo: un sistema di giudici e al tempo stesso di “ingegneri sociali”, una consorteria di tecnocrati raffinati. Livatino, mentre si tiene a distanza dal primo “sistema”, mette in guardia dal secondo, e ne coglie con spirito profetico il suo senso di superiore giustizia solo apparente, la sua portata esiziale per ogni magistrato, chiamato a diventare “protagonista occulto” – così egli lo definisce – di esperimenti sociali. La sola tutela che Rosario ha cercato per la propria coscienza professionale è quella di Dio: S.T.D., sub tutela Dei sono le tre lettere che si ritrovano sulle pagine più impegnative del suo diario.

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