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Dubai Confidential: Affari Italiani

 

AFFARI ITALIANI 

La crisi ha messo in discussione la ‘terza via’ della finanza islamica

di Ulisse Spinnato Vega

Quando pensi a Dubai, la prima parola che ti viene in mente è evanescente. A fine novembre il fondo sovrano Dubai World ha dichiarato al mondo la propria insolvenza e allora d’un tratto è apparso evanescente il boom economico dell’emirato, evanescente il luccichio dei grattacieli al sole del Golfo Persico, evanescente il miracolo finanziario della città-stato di Mohammed al-Maktoum.

Ora la Disneyland del mattone che scava fondamenta nella sabbia ha fatto sapere che il debito da ristrutturare è solo una parte (26miliardi) di quello annunciato, le Borse si sono tranquillizzate e il mondo ridimensiona un allarme che aveva rimesso in cima all’agenda il tema delle riforme economiche globali. Ma che cosa si nasconde davvero dietro all’espansione di una società che sembra artificiale come gli isolotti su cui svettano torri fantasmagoriche e gru oggi ferme per il rischio default?

“C’è un esperimento di convivenza che la crisi rischia di far saltare – dice ad Affaritaliani.it Sergio Nazzaro, esperto di mercati internazionali che da anni viaggia per lavoro nel piccolo emirato e che da due settimane è in libreria con ‘Dubai Confidential’ (Elliot edizioni) – In quella città l’Occidente e l’Islam si sono incontrati e sul dio denaro hanno fondato una proficua convivenza. Basti pensare che le campane della cattolica chiesa di St. Mary sono state donate circa 40 anni fa dal padre dell’attuale emiro. Non appena esci sul sagrato – aggiunge Nazzaro – vedi che lì a fianco c’è una moschea, un club iraniano e i protestanti scandinavi dediti all’assistenza degli uomini di mare”.

Mentre l’Europa discute del divieto svizzero sui minareti, “a Dubai si è affermato un Islam progressista che si è incontrato con la nostra cultura. Certo – racconta lo scrittore – in spiaggia bisogna adottare certi comportamenti, esistono piccoli divieti, ma siamo lontani dal fanatismo di città come Riyad. Le donne hanno spesso ruoli da manager e sono anche nel governo”. La crisi ha messo in discussione la ‘terza via’ della finanza islamica, i cantieri sono fermi, ma come sempre “il problema si pone soltanto appena si toccano le banche. Mentre dei piccoli investitori nessuno si preoccupa”, denuncia Nazzaro.

E spiega: “Siamo alle solite: la crisi si poteva prevedere. Lì le proprietà sono degli arabi, ma le teste pensanti sono europee e americane. E loro non hanno voluto vedere il default. E’ una questione di regole. Oggi il governo di Dubai dice che è solo una controllata (la società Nakheel, ndr) a non poter garantire i debiti e che le banche lo sapevano. Il fatto è che i creditori non possono pensare di drogare il mercato. E comunque i player occidentali staranno al gioco: nessuno può pensare di abbandonare Dubai al proprio destino, si rischia di regalarla all’influenza dell’Iran che lì ha molto investito”. Il problema comunque è più politico e di immagine che strettamente finanziario. “Se l’emirato vicino, Abu Dhabi, volesse, potrebbe intervenire con il fondo sovrano Mubadala e ripianare tutti i debiti – riflette l’agente immobiliare – ma finirebbero a rischio anche alcuni gioielli di famiglia come Emirates. E Mohammed al-Maktoum vuole evitare lo ‘shopping’, per questo dice che non ci sono problemi e le finanze sono solide”.

Insomma, conta il prestigio. Abu Dhabi ha il 95% del petrolio e tuttavia la sua grigia fama non ha nulla a che vedere con la scintillante Dubai, sogno di indiani, cinesi e di molti occidentali. “Hanno un target di 15milioni di visitatori l’anno – ricorda Nazzaro – C’è il mare e il turismo dello shopping. C’è la speculazione immobiliare e molti italiani hanno investito qui accarezzando il sogno di una vita diversa, lontana dalle tensioni e dalle incertezze del nostro Paese”. Però l’emirato non manca di difetti strutturali. “C’è poca trasparenza amministrativa e pesa lo sfruttamento della manodopera indiana o pakistana. Il salario degli edili è di 200 dollari – conclude Nazzaro – ma soprattutto non è stato messo in piedi uno straccio di welfare. Se perdi il lavoro e non lo ritrovi, dopo 30 giorni te ne devi andare. Ecco perché la gente ha lasciato la casa, ha strappato le carte di credito e ha abbandonato le auto in aeroporto con le chiavi nel cruscotto. Questa New York piantata nel deserto è stata per molti una città usa e getta”.

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