Guida Editori ha pubblicato un testo di ricerca e di analisi sul fenomeno mafioso intitolato “Mafie, politica, pubblica amministrazione” di Ugo Di Girolamo. Il testo indaga con grande rigore scientifico e con spirito innovativo il fenomeno, ponendo sotto i riflettori il ruolo della politica nella non sconfitta del fenomeno della criminalità organizzata in Italia.
La prima domanda la voglio rubare dalla copertina del libro: è possibile sradicare il fenomeno mafioso dall’Italia?
“Si è possibile. Al di la di quanto affermava Falcone sulla natura sociale del fenomeno che come tale prima o poi avrebbe avuto una fine, l’Italia è l’unico paese dell’Europa occidentale che ha questo problema. Non si vede perché essa non debba omologarsi al resto dell’Europa occidentale. Ma il fatto che nel libro indico una possibile soluzione non significa però che essa sia politicamente attuale. Il quadro politico nazionale è tale che sembra andare nella direzione opposta a quanto auspicato nel testo”.
E’ molto interessante l’approccio di considerare le diverse nature della criminalità organizzata (Mafia, Camorra, Ndrangheta etc.) come un unico corpo criminale. Perché questa scelta e quanto è valida questa ipotesi di lavoro?
“L’approccio unitario, nello studio delle principali organizzazioni criminali di tipo mafioso, fu auspicato da Nicola Tranfaglia nel lontano 1990, ma è stato utilizzato solo da Enzo Ciconte nel 2008 e da me. Ritengo tale metodo indispensabile ai fini della individuazione dell’essenza del fenomeno mafioso, che è la stessa per tutte e quattro le organizzazioni maggiori e che consiste nella penetrazione negli apparati dello Stato, nell’intreccio tra gruppi criminali e settori della politica e della Pubblica Amministrazione. Se non si parte da ciò diventa impossibile, anche sul piano teorico, elaborare una strategia di sradicamento delle mafie dalla vita sociale, economica e politica dell’Italia”.
Quanto sono compromettenti i rapporti tra criminalità organizzata e politica, e quali sono soluzioni sono adottabili per la risoluzione di questo intreccio?
“Il problema del rapporto tra criminalità e politica non si pone nei termini di una quantità più o meno grande di politici direttamente compromessi con i vari clan, che pure ci sono ed esercitano il loro nefasto ruolo, ma va visto in termini di responsabilità storica dell’intero ceto politico italiano. Se è vero che le tre mafie storiche sono il frutto di un peculiare processo di eversione della feudalità e dell’affermazione della modernità borghese nell’Italia meridionale, nonché del singolare processo di unità nazionale, allora – oggi nel 2009 – potremmo celebrare il bicentenario di cosa nostra, ’ndrangheta e camorra. Uno specifico fenomeno criminale che parte dal regime borbonico, giunge alla maturità in quello liberale, attraversa quello fascista e continua a vivere in quello repubblicano, non può non chiamare in causa il ceto politico italiano in tutte le sue sfumature, dall’origine a oggi. È nella spiegazione di questo arcano che sta la soluzione della questione mafiosa. Arcano che provo a chiarire nel libro”.
Dal tuo punto di vista, in cosa difetta attualmente lo studio e la comunicazione sul problema Mafia in Italia, quali le lacune a cui si dovrebbe mettere immediatamente riparo?
“Fin dall’origine il fenomeno mafioso è stato artatamente circondato da grande confusione. A volte si è fatta confusione anche in buona fede, come ad esempio nel caso della scuola sociologica degli anni ’70, che negava l’esistenza di clan organizzati e tra loro strutturalmente collegati perfino in Sicilia. Dai tempi di Falcone e di Tommaso Buscetta molti passi avanti sono stati fatti e molte verità, già acquisite in epoca liberale, sono state nuovamente riscoperte. Tuttavia, ancora grande è la confusione intorno alla questione mafiosa. Nel libro indico tre errori molto diffusi che a mio avviso svolgono un ruolo deleterio, di ostacolo ad una diffusa consapevolezza della pericolosità delle organizzazioni criminali di tipo mafioso”.
Quali sono questi tre errori?
“Il primo riguarda la presunzione – tutta settentrionale – che il problema mafioso riguardi il Mezzogiorno d’Italia. Il secondo consiste nella confusione tra capitalismo e mafie. Pino Arlacchi, con la pubblicazione de “La mafia imprenditrice” nel 1983, diede il via a questa confusione, perpetuata e ingigantita dalla teoria della “borghesia mafiosa” di Umberto Santino. Il terzo errore sta nell’uso indifferenziato di criminalità organizzata e criminalità mafiosa, quasi fossero sinonimi”.
E che conseguenze hanno prodotto?
“Le conseguenze di questi tre errori sono: a) la questione mafiosa è un problema dei meridionali, se la risolvessero loro e il governo provvedesse a reprimere con forza la criminalità del Sud; b) se mafie e capitalismo sono due aspetti dello stesso problema: il prelievo di plusvalore dai produttori, allora se ne riparlerà quando il capitalismo sarà sostituito dal socialismo. Inoltre, non si percepisce più la pericolosa devastazione del sistema produttivo operata dai clan; C) Infine, la criminalità organizzata esiste ovunque nel mondo e vi è sempre stata, conclusione: dobbiamo imparare a convivere con la criminalità organizzata mafiosa.
E’ grazie anche a questi diffusi errori che le mafie continuano ad esistere, ma è soprattutto il clientelismo, la corruzione e il voto di scambio che consentono ai clan di penetrare nello Stato e riprodursi. Se non si affronta il nodo del modo di essere (ab origine) del ceto politico italiano la questione mafiosa non potrà mai essere risolta. Un nuovo movimento antimafia dovrebbe porre al centro della sua azione questa questione politica”.
Si può separare mafia e capitalismo?
“La penetrazione nell’apparato produttivo dei cosiddetti imprenditori mafiosi in svariati comparti dell’economia è un dato di fatto,ma questa devastante penetrazione non dimostra che i mafiosi o i loro prestanomi siano degli imprenditori capitalisti, nè tantomeno che il fenomeno mafioso sia una sorta di sottoprodotto del capitalismo. Se così fosse allora bisognerebbe spiegare perché in Europa occidentale esso esiste solo in Italia. Chi pensa che la mafia esiste anche in Germania – ad esempio – confonde la criminalità organizzata con la criminalità mafiosa.
Per quanto riguarda la figura del cosiddetto “imprenditore mafioso”, tutto è cominciato con Arlacchi, nel 1983, che con una sua personalissima interpetrazione delle parole di Joseph Schumpeter ha esteso la qualifica di imprenditori al mafioso, o al suo prestanome, impegnato in attività lecite. Questa estensione è possibile – dice Arlacchi – perché il mafioso introduce innovazioni nel processo produttivo, consistenti nell’applicazione del metodo violento nella conduzione degli affari dell’impresa e della gestione del personale. Nella stessa pagina (109) Arlacchi afferma: nel territorio di sua competenza l’imprenditore mafioso non ammette concorrenza, né contrattazione sindacale, inoltre usufruisce di capitali “facili” provenienti da estorsioni, usura e taglieggiamenti vari. Altro che imprenditori, quì ci troviamo di fronte a “monopolisti” che negano l’essenza stessa del capitalismo: libertà d’impresa, concorrenza e contrattazione sindacale.
Non si fa oziosa accademia. Il venir meno dei presupposti fondamentali del capitalismo blocca i processi innovativi e i conseguenti incrementi di produttività.
Un apparato produttivo dove vigono le regole violenti dei cosiddetti imprenditori mafiosi è destinato alla marginalizzazione nel mercato internazionale e al declino”.
Ugo Di Girolamo, classe 1947 è laureato in scienze politiche alla Federico II di Napoli, per molti anni ha svolto attività politica a Caserta ed è stato consigliere comunale a Mondragone, dove ha potuto osservare “dal vivo” il fenomeno mafioso. Ha recentemente pubblicato un testo fortemente innovativo sul fenomeno mafioso in Italia.
LA RECENSIONE DI ENZO CICONTE
Si può essere d’accordo o meno, con Ugo Di Girolamo [Mafia, politica, pubblica amministrazione. E’ possibile sradicare il fenomeno mafioso dall’Italia? Guida 2009], ma le prime parole del suo libro sono di una chiarezza esemplare: “Conniventi, conviventi ed eccezioni!
È questa la ripartizione che si può fare del ceto politico italiano, in rapporto alla questione mafiosa. In altri termini, dall’unità d’Italia a oggi, l’insieme degli attori della politica nazionale e locale possono essere raggruppati in tre categorie: coloro che hanno trescato con i poteri mafiosi, utilizzandoli anche a scopo di controllo sociale e politico; quelli che hanno sempre sottovalutato la pericolosità degli effetti perversi di questo intreccio sull’intera politica nazionale, derubricando la questione mafiosa a semplice questione criminale, nonché relativa ad alcune aree del Mezzogiorno; ed infine, una esigua minoranza che ai mafiosi ha disperatamente tentato di opporsi, spesso agendo nell’isolamento, nell’indifferenza dei più e in qualche caso pagando con la vita”.
Personalmente sono convinto che quel giudizio sia storicamente fondato, anche se forse la minoranza di cui si parla è meno esigua di quanto non appaia – o almeno così vorrei credere, visto che faccio parte di quella schiera e penso che negli ultimi dieci-quindici anni s’è andata infoltendo di figure e di associazioni nuove (si pensi ad associazioni come Libera e ai tanti sacerdoti che, sull’esempio di don Luigi Ciotti, si stanno attivamente impegnando rovesciando un andazzo plurisecolare di sacerdoti acquiescenti o conviventi con le varie mafie); ma – è evidente – quest’osservazione non intacca minimamente il giudizio sul libro.
Queste prime parole hanno il pregio di cogliere il cuore del problema mafioso e della sua lunga durata che s’è snodata, con un’inarrestabile progressione, per più secoli ed attraverso regimi politici molto diversi tra di loro: borbonico, liberale, fascista, repubblicano senza che nessuno di questi regimi sia mai riuscito a venire a capo della questione.
La lunga permanenza si spiega esattamente per il rapporto e per l’intreccio tra la mafia e la politica; e dunque è del tutto evidente che ad essere chiamati in discussione siano la formazione e il comportamento del ceto politico e dei pubblici poteri lungo tutto il periodo considerato.
Ridurre il problema della presenza delle mafie ad un semplice problema criminale è stato un errore capitale che molti hanno commesso, si può dire sin dalle origini del fenomeno, e che molti continuano a commettere ancora ai nostri giorni nonostante le dure lezioni della storia.
Nessuno tra chi ha pensato di affrontare il problema in termini schiettamente repressivi – anche i più duri e i più spietati – è mai riuscito a porre la parola fine al progressivo avanzare della mafia, anzi delle mafie.
Se ciò è accaduto vuol dire che la soluzione individuata non era quella più adatta, vuol dire che la medicina s’è rivelata inadatta a curare il male. Le grandi operazioni di polizia – da quelle del prefetto Malusardi in epoca liberale a quelle del prefetto Mori in epoca fascista – sono ricordate per la loro efficacia sul piano immediato e per la loro inefficacia ed inconcludenza nel lungo periodo.
La scorciatoia repressiva ha fallito perché dava delle mafie una lettura sbagliata, ma ha generato un altro mostro interpretativo, cioè l’idea che la mafia fosse un’emergenza. Sono innumerevoli le dichiarazioni di rappresentanti istituzionali e delle forze dell’ordine, di magistrati e di uomini politici, impegnati a commentare l’ennesima emergenza dei morti ammazzati, i cadaveri eccellenti che ci siamo lasciati alle spalle, le stragi siciliane e quelle di Firenze, Roma e Milano del 1993.
Ma un fenomeno che dura almeno a partire dall’unità d’Italia può essere considerato un’emergenza? Evidentemente no, ma la teoria dell’emergenza – se guardata nella sua essenza vera – è una teoria consolatoria perché ogni emergenza, anche la più aspra e dura, è destinata a passare, e poi torna la normalità di prima. Ma la normalità in questo caso è solo il progredire più o meno rapido dell’insediamento mafioso.
Di Girolamo ha ben presente l’insieme di questi problemi. Per questo motivo l’insistere sui temi della politica e della pubblica amministrazione dà l’idea dell’approccio fondamentale d’un libro che non ha come tema centrale i tanti morti ammazzati dalle mafie, che non contiene il solito elenco delle guerre di mafia, che non illustra il significato e l’importanza delle grandi operazioni di polizia. Li conosce, ovviamente, e sa bene quanto siano importanti; ma li lascia sullo sfondo, non li rende protagonisti del libro.
Le pagine attraversano con rapidi schizzi, in un continuo andirivieni, la storia d’Italia dentro la quale c’è quella particolare storia del Mezzogiorno che aiuta a comprendere le ragioni che hanno portato il Mezzogiorno e l’Italia nelle attuali condizioni.
Uno dei fili che caratterizzano la trama del libro è l’individuazione, pur in presenza di diversità, dei tratti comuni delle singole organizzazioni. E’ un approccio fecondo che solo di recente comincia ad affacciarsi nelle ricerche, tutte sinora orientate ad esaminare le singole organizzazioni criminali senza valutare con sufficiente attenzione i tratti comuni che esse hanno avuto ed hanno ancora oggi.
Cogliere, pur nella diversità, quanto di simile ci sia nel modo d’agire, nella cultura e nelle manifestazioni esteriori delle varie mafie significa affrontare in modo unitario lo studio di realtà che sinora sono state descritte separatamente, vuol dire cogliere i nessi e i rapporti tra di loro e nel contempo tra le varie mafie territorialmente dislocate, le istituzioni e la politica.
Cambiano i nomi e le realtà regionali dei singoli comuni ma, a saper guardare le cose con uno sguardo che abbracci l’insieme, ci sono molte cose che si ripetono uguali con una regolarità tanto prevedibile quanto monotona. Cogliere le caratteristiche comuni è esercizio molto utile se si vogliono affrontare con efficacia le necessarie azioni di contrasto.
Nello scritto di Di Girolamo c’è passione, partecipazione, impegno civile – particolarmente significative sono le dense e numerose pagine dedicate a Mondragone, uno squarcio illuminante dell’intera impostazione del libro – ed una sofferta denuncia del degrado della politica e del suo tradimento di fronte alle popolazioni dei singoli territori dove gli uomini politici operano ed agiscono.
E’ un giudizio tagliente, il suo, ma è difficile negare che il personale politico che è all’opera nelle terre di mafia per la grande maggioranza sia composto da “conniventi e conviventi”. Insomma, “se la intendono con i clan” oppure “fanno finta che la mafia non esista, tirando avanti negli spazi loro concessi dai poteri criminali”.
Tagliente, ma vero; drammaticamente vero! Si potrebbero scrivere centinaia di pagine e raccontare di uomini politici e di rappresentanti delle istituzioni che, contro ogni evidenza, hanno negato l’esistenza della mafia. Al Sud come al nord – a dar retta a queste dichiarazioni – la mafia non è mai esistita. E nel libro gli esempi riportati sono illuminanti.
C’è un gioco a rincorrersi che è stupefacente. Tutti a negare la presenza mafiosa nel proprio territorio, preoccupati di salvaguardare l’immagine della propria città senza guardare alla sostanza del problema, senza cercare di comprendere le dimensioni dell’infiltrazione, senza chiedersi se essa sia ancora superficiale oppure profonda.
Negli ultimi decenni s’è prodotto e s’è esteso il fenomeno della presenza, a tutti i livelli, di uomini espressione diretta delle cosche nelle istituzioni. Basta scorrere l’elenco dei comuni sciolti per condizionamento mafioso per avere il quadro delle capacità di infiltrazione. Quadro peraltro parziale perché ad esso occorre aggiungere i tanti mafiosi che sono collocati nei consigli provinciali o regionali e quelli che siedono in Parlamento.
La tendenza, iniziata negli anni ottanta, s’è sicuramente estesa perché i mafiosi non hanno avuto la pazienza di attendere i tempi della politica, che sono tempi lunghi, della mediazione, della contrattazione e perché in definitiva non si sono mai fidati fino in fondo dei politici puri; hanno preferito scegliere propri rappresentanti: hanno preferito votare per loro stessi invece di investire su candidati altrui.
Ciò è potuto accadere perché è prevalsa l’idea che occorreva convivere con la mafia in Sicilia, con la camorra in Campania, con la ‘ndrangheta in Calabria e con la sacra corona unita in Puglia. L’idea – e la pratica – della convivenza hanno reso più forti tutti i mafiosi ed hanno indebolito coloro che avevano intenzione di opporsi allo strapotere della mafie.
Oggi la situazione è più complicata rispetto al passato anche perché le mafie, come non manca di ricordarci Di Girolamo, hanno prolungato il proprio raggio d’azione al Nord. Dal Lazio alla Lombardia c’è una presenza in tutte le regioni del Nord, seppure distribuita a macchia di leopardo. I dati sui beni confiscati alle cosche nelle regioni del Centro e del Nord danno un quadro interessante della realtà. Quadro anch’esso parziale perché è del tutto agevole immaginare che molti siano i beni non individuati e ancora in possesso dei mafiosi.
La situazione è di tale gravità da poter affermare che la battaglia contro le mafie è una battaglia nazionale e la si vincerà se si affronta la questione settentrionale sradicando le radici economiche ampiamente piantate in quelle latitudini. La presenza al Nord delle mafie – oggi in particolare della ‘ndrangheta che è la più forte e la più radicata – è oramai un fatto assodato da più decenni, ma si fa fatica ad ammetterlo, soprattutto nelle regioni del Nord dove sopravvive l’illusoria idea dell’isola felice. Ci si può illudere – e molti continuano a farlo – a patto di non voler comprendere nulla della propria realtà, a cominciare da quello che succede nel campo dell’economia.
C’è libertà economica, d’impresa, di commercio in terre occupate dalle mafie? In molte aree delle regioni del Sud sono in discussione la democrazia, l’esercizio dei diritti democratici, a cominciare dal diritto di voto libero, della libertà di associazione, di fare sciopero, di fare sindacato e di fare politica. Nella metà dei comuni della Calabria si sono registrati attentati, agguati, intimidazioni e minacce contro sindaci, consiglieri comunali, amministratori provinciali e regionali, uomini politici di tutti gli schieramenti. Amministrare o fare politica sono diventate attività a rischio, come lo è fare impresa.
Nel Nord le mafie stanno penetrando attraverso inserimenti nell’economia locale che avvengono in modo silenzioso, senza destare allarme sociale e con l’ausilio di uomini-cerniera (colletti bianchi, speculatori, economisti, notai, commercialisti) che hanno messo in collegamento mondo legale e mondo criminale. E’ un processo in atto i cui sviluppi non sono del tutto prevedibili.
Di Girolamo dice parole chiare e anche di esplicita polemica nei confronti di analisi come quelle di chi tende a confondere mafia e capitalismo o a usare categorie interpretative come quella della borghesia mafiosa o proposte come la stazione unica appaltante.
Un libro non scontato, che non vuole accontentare tutti, ma che ha il coraggio di esprimere senza veli un proprio punto di vista. Si discuteranno alcuni punti e alcune proposte avanzate perché è facile prevedere che non tutti saranno d’accordo sulle tesi espresse; ma se ciò avverrà – ed è auspicabile che avvenga – sarà un altro merito del libro.
Su un punto, però, è davvero difficile dissentire: “Compito prioritario dell’antimafia nel suo insieme – scrive Di Girolamo – ci sembra quindi quello di abbattere il muro autodifensivo del ceto politico italiano”.
Questo è compito davvero assai gravoso, complesso, di lunga durata, che richiede impegno, una certa cultura, una battaglia politica dentro i partiti. Colpire quella che viene definita la “corona esterna” ai nuclei degli affiliati è davvero il compito dei prossimi anni. Cominciando da adesso, però.
(Enzo Ciconte è considerato fra i massimi esperti in Italia delle dinamiche delle grandi associazioni mafiose è docente di Storia della criminalità organizzata all’Università di Roma Tre. È stato deputato nella X legislatura (1987-1992), membro della Commissione giustizia e consulente presso la Commissione parlamentare antimafia, ha realizzato numerosi studi relativi al meccanismo di penetrazione delle mafie al nord, ai rapporti tra criminalità mafiosa e locale e alle attività mafiose nei nuovi territori, pubblicando volumi che costituiscono i primi esempi in Italia di indagini scientifiche del fenomeno malavitoso nelle aree non tradizionali)