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Elogio di Sergio Nazzaro, narratore autentico della mafia nigeriana

di Nicola Biondo

Dopo “Io per fortuna c’ho la camorra” lo scrittore svizzero torna a raccontare la criminalità organizzata africana attraverso un reportage sulla prima indagine della squadra antitratta

Uno scrittore senza la sua ossessione è niente, solo un assemblatore di parole e segni di interpunzione. Sergio Nazzaro non è tra questi. Pubblica inchieste, reportage, saggi e romanzi da più di vent’anni e non c’ è una sua opera né storia né tono narrativo – farsa, tragedia o elegia – che ha maneggiato nella quale la molla della sua ossessione non lo abbia catapultato dentro universi differenti eppure così simili, nel costante ritorno ad una terra madre che spiega ogni cosa, che avviluppa, salva e uccide.

La risposta del mondo tutt’intorno alle penisola Domiziana era, ed è, una sola: c’è ne fottiamo di voi. L’escrescenza che tutti schifano dopo averla prodotta. Basta questo per crescere con l’ossessione per questo lembo di terra. Che non è un non luogo: queste sono definizioni che funzionano per i fautori della gentrification, il fighettume cittadino che non contempla né sfumature né verità e si ciba di luoghi comuni per descrivere ciò che non vuole capire perché non odora come loro vorrebbero. L’area Domiziana appoggiata tra Napoli e Roma è un luogo, una terra bellissima che l’uomo ha maledetto. E che altri uomini vogliono benedire senza essere per forza criminali, profittatori, speculatori sulle sue piaghe.

Nazzaro ci prova da vent’anni dicevamo e così sono nate le sue storie e i suoi personaggi così inventati da sembrare reali e così reali da sembrare esercizi di fantasia. Ma sono figli di quella terra. E soprattutto sono veri, così veri che Nazzaro ha dovuto solo trovare i loro verbali di esistenze storte o raccoglierne le confessioni un attimo prima che si perdessero di nuovo.

«Non riesco a fare altro se non svelare quanto dolore ci può essere, anche in chi fa del male il suo mestiere. perché l’importante non è giudicare ma conoscere il meccanismo che ci fa essere migrante, mafioso, spacciatore, sbirro o prete». E così che ci si imbatte in Palma. «Ho tagliato droga. Non solo per venderla. A diciotto anni accompagnavo mio zio a riscuotere tangenti e comprare carichi di droga. Ho ammazzato. Più di una volta. Sto per morire. Non lo so perché, ma mi chiamano Palma. Ed è solo l’inizio della mia storia. Sto morendo. Non oggi. Ieri, ma è già successo. Domani probabilmente, ma lentamente. Ho trentasei anni e qualche mese sparso. Guardami in faccia. Se mi metto il fazzoletto nero delle vecchie quando sono a lutto assomiglio a loro. Anch’io sono a lutto». O in Amalia e Giufà, giovanissimi migranti protagonisti di Mediterraneo, libro a fumetti che Nazzaro firma con Luca Ferrara. Ovvero come il Mediterraneo si è trasformato da culla di civiltà in cimitero.

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