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Il nuovo volto della mafia è mercatista

Il Comandante Generale dell’Arma dei Carabinieri, Gen. Teo Luzi: “Il nuovo volto della mafia è ‘mercatista’”

«Cosa Nostra resta un modello criminale di riferimento. Ed è un modello vivo, non uno spettro che riaffiora dal passato». Questa lucida analisi del Generale Teo Luzi, Comandante Generale dell’Arma dei Carabinieri disegna immediatamente la pericolosità di sottovalutare determinati fenomeni mafiosi, e di come ciò comporti il non comprenderne le nuove dimensioni “mercatiste” che assumono. Lo stesso vale anche per un’altra trasformazione che porta la criminalità organizzata a non aggredire più i territori ma a colluderli, con la violenza come arma.

Dal Generale Alberto Dalla Chiesa al carabiniere semplice Salvatore Nuvoletta ammazzato per mano del clan dei casalesi a soli 20 anni, c’è la parabola di come duramente le mafie hanno colpito l’Arma. Teo Luzi, prima di essere nominato nel gennaio 2021 Comandante Generale dei Carabinieri, è stato anche Comandante provinciale a Palermo, durante l’importante operazione che ha bloccato la rinascita della cupola mafiosa.

 

Generale, la sua carriera l’ha vista in prima linea a Palermo dal 2007 al 2012, dove ha condotto l’operazione “Perseo”: cento mafiosi arrestati che stavano ricostruendo la commissione provinciale palermitana, ovvero l’organo mafioso deputato alle decisioni più importanti. Che cosa l’ha colpita maggiormente di quella operazione e che cosa è cambiato, come ha mutato pelle Cosa Nostra rispetto ad oggi?

L’operazione “Perseo” fu condotta dai Carabinieri di Palermo nel 2008. 100 arresti, tra cui storici boss, e la disarticolazione del progetto di ricostituire la commissione provinciale – la Cupola – che con le sue decisioni aveva già segnato la stagione delle stragi. Quell’operazione offrì una sorta di “mappa concettuale” per orientarci in un “paesaggio criminale” del nostro Paese, ancora assai concreto, cogliendo tre aspetti del tutto peculiari: Cosa Nostra trae la sua autorevolezza (ed efficacia) dall’organizzazione; è gerontocratica; è un riferimento nel panorama criminale. Le intercettazioni registrarono per mesi le conversazioni dei capi della mafia palermitana che, riuniti in luoghi improbabili – un garage, una macelleria, finanche un ospedale – tessevano le trame di una nuova strategia. “Non dobbiamo fare come i napoletani, ognuno per conto suo. Dobbiamo cercare armonia” – dicevano. Dal rispetto delle regole a quello degli anziani il passo è breve. Ecco l’altro aspetto: la gerontocrazia di Cosa Nostra. L’operazione Perseo porta nuovamente in carcere Gerlando Alberti, all’epoca 80enne. Era stato arrestato dal Colonnello Carlo Alberto Dalla Chiesa nel 1971. È morto il 31 gennaio 2012 all’età di 84 anni, mentre si trovava agli arresti domiciliari nella sua abitazione palermitana. I primi due aspetti – l’organizzazione e la gerontocrazia – hanno poi un precipitato: Cosa Nostra resta un modello criminale di riferimento. Ed è un modello vivo, non uno spettro che riaffiora dal passato. Se vogliamo, depotenziato, ma ancora estremamente pericoloso, richiedendo un’attenzione costante. Esattamente dieci anni dopo l’operazione “Perseo”, a dicembre del 2018, sempre i Carabinieri di Palermo hanno concluso l’operazione “Cupola 2.0”, con l’arresto di 49 presunti appartenenti ai principali mandamenti della provincia. Così, anche il secondo tentativo di costituire la commissione provinciale mafiosa è fallito sul nascere. Guardando agli sviluppi delle strategie operative di Cosa Nostra, direi che oggi il volto della mafia è “mercatista”: cavalca le logiche del mercato, offrendo beni e servizi. Droga, prostituzione, sempre richieste da migliaia di persone. Ma anche prestazioni in grado di abbattere i costi d’impresa. Penso allo smaltimento illegale dei rifiuti o alla fornitura di manodopera sottopagata o schiavizzata. In breve, la mafia non ha più un rapporto aggressivo con il territorio, ma tipicamente collusivo. Ben inteso. La violenza è pronta ad essere impiegata. Ma deve essere indispensabile.

Tanti, numerosissimi, sono gli uomini dell’Arma caduti nella lotta alle mafie. Tra questi mi ha sempre colpito, per vicinanza territoriale, la figura del carabiniere Salvatore Nuvoletta, ucciso a soli 20 anni dal clan dei Casalesi. Che cosa rimane dell’estremo sacrificio di uomini e donne, persone normali che troppe volte si sono trovati a combattere “a mani nude” la tracimante violenza mafiosa? Che cosa è necessario fare perché la morte di queste persone non diventi solo una ricorrenza, un anniversario?

Dal dopoguerra, l’Arma ha perso oltre 1.300 figli. Mi creda, non c’è retorica in questa parola. Sono davvero figli nostri e il loro sacrificio ci segna. Nessuno tra loro è stata una vittima inconsapevole. Sono uomini che non hanno esitato. Hanno messo in gioco tutto per difendere le Istituzioni democratiche e i Diritti dei cittadini contro ogni forma di delinquenza: il banditismo, la mafia, la criminalità di strada, finanche la violenza più sconsiderata. Ed è vero, molti erano giovanissimi. L’Appuntato Salvatore Nuvoletta si era arruolato a 17 anni e tre anni dopo, nel 1982, è caduto sotto i colpi di pistola di un commando della Camorra che voleva “vendicare” la morte di un affiliato, Mario Schiavone, deceduto qualche giorno prima in un conflitto a fuoco con una pattuglia dell’Arma. Il Tenente Marco Pittoni aveva 33 anni quando, nel 2008 a Pagani, in provincia di Salerno, affrontò in un ufficio postale due rapinatori. Non impiegò la propria arma per non mettere in pericolo la vita delle numerose persone presenti. Così perse la propria. Il Brigadiere Cerciello Rega, di cui tutti conosciamo la più recente tragica vicenda si era sposato da poco più di un mese. Fare memoria di tanto sacrificio non è semplicemente il richiamo di un ricordo. La memoria non è un contenitore. È la “tensione” che ci attraversa e con la quale affrontiamo la nostra quotidianità. In questo momento, mentre parliamo, oltre centomila Carabinieri stanno compiendo il proprio dovere. E non hanno mai smesso, anche durante i periodi più drammatici dell’emergenza sanitaria che il Paese sta attraversando. Alla fine, questa straordinaria operosità è il modo che noi abbiamo per onorare al meglio i tanti che non sono più. Il modo con il quale l’esempio di tanto coraggio alimenta ogni giorno il coraggio dell’esempio che ogni Carabiniere deve dare. Poi c’è un altro aspetto. L’Arma sul territorio parla con i giovani, nelle scuole. Abbiano una campagna di diffusione della cultura della legalità. È un’occasione, importantissima, durante la quale gli episodi tragici che ci hanno coinvolto danno concretezza alle parole di “buona cittadinanza” che vogliamo diffondere. I nostri giovani vivono spesso in un presente perenne e asfittico. Penso che questa operazione culturale possa contribuire a dare spessore alle loro vite. 

Dal suo punto di vista, che senso ha la parola Antimafia ovvero di che cosa ha bisogno la risposta dello Stato, ad una criminalità organizzata che si muove con grande velocità e duttilità, per essere realmente efficace? Riusciamo a dare una concreta risposta anche transnazionale a questa minaccia continua delle mafie?

L’Antimafia è il dovere del fare. Anzitutto c’è l’ascolto attento del territorio. Perché la mafia è anzitutto radicamento ed è necessario che i cittadini trovino riferimenti sicuri. Penso ai Comandanti di Stazione che vivono la realtà delle diverse comunità e sono il volto dello Stato pronto ad ascoltare, a sostenere, a indicare un percorso. Quindi giungono le indagini, condotte dai nostri Reparti qualificati, il ROS e i Nuclei investigativi, al fianco della Magistratura, con metodo e perseveranza, come attesta il susseguirsi delle operazioni. Per questo aspetto, preme evidenziare due direttrici, tra loro certamente interconnesse, l’aggressione ai capitali illeciti e le dinamiche transnazionali delle organizzazioni criminali. La mafia è sempre più “impresa” ed è sempre più un “holding criminale”. Il Generale Carlo Alberto Dalla Chiesa, quando operò come Comandante della Legione Carabinieri di Palermo, dal 1966 al 1973, ottenne eccezionali risultati, culminati con l’invio alla Commissione Parlamentare Antimafia del primo Rapporto organico sulle nuove strutture della mafia. Con quel Rapporto, l’allora Colonnello Dalla Chiesa metteva in campo la propria innovativa mentalità investigativa, anticipando i prodromi della stagione del terrore mafioso. Dalla sua analisi emergeva l’esigenza di rivolgersi con visione unitaria all’organizzazione mafiosa e di seguirne i profili economici per confiscare beni e capitali, soprattutto – badi bene – quando questi siano investiti in Paesi esteri.[1]

Due chiavi di lettura di straordinaria modernità, che ispirarono certamente l’introduzione del reato di associazione di tipo mafioso, dieci giorni dopo l’eccidio, e che, ancora oggi, segnano l’impostazione dell’azione investigativa nel contrasto a tutte le organizzazioni criminali. L’aggressione ai patrimoni illeciti è parte integrante della cultura investigativa dell’Arma. Solo negli ultimi cinque anni, abbiamo specializzato 434 unità. Altre 175 seguiranno. L’accesso per tutte le Forze di polizia alla banca dati delle segnalazioni delle operazioni sospette, che da tempo auspichiamo, muove in quella stessa direzione indicata dal Generale Dalla Chiesa. Certamente, traguardando la globalità della minaccia, dobbiamo riconoscere la progressiva crescita della cooperazione internazionale nel contrasto alla criminalità al di fuori dei confini nazionali. Penso, in àmbito europeo, ad Eurojust e quindi alle “Squadre Investigative Comuni” e all’”Ordine di Indagine Europeo”, agili e moderni strumenti di cooperazione giudiziaria. Non minor rilievo assumono i canali di cooperazione di Interpol, Europol e Schengen, attraverso i quali le Forze di polizia straniere possono rapidamente giungere sia a uno scambio informativo, sia a diversificate forme di collaborazione operative in uno Stato estero.  Permangono tuttavia significative differenze negli strumenti che le legislazioni dei singoli Paesi approntano a favore delle agenzie di law enforcement per il contrasto alla criminalità organizzata. È comprensibile la sensibilità con cui sono affrontate le questioni relative alla salvaguardia della sovranità nazionale. In tale quadro, la frammentazione delle norme favorisce un “effetto mongolfiera” per cui le organizzazioni criminali si muovono “in quota” depotenziando gli sforzi investigativi. La mancata previsione negli ordinamenti all’estero del reato di associazione di tipo mafioso ha rappresentato, spesso, un ostacolo per l’individuazione, la ricerca e la cattura di criminali italiani legati alla mafia. L’esperienza italiana strutturatasi sul contrasto alla presenza endemica di tali forme di criminalità rappresenta oggi un modello di riferimento e posso con assoluta certezza affermare che le Forze di polizia italiana, per i risultati sinora conseguiti, possano ben rappresentare, nel contesto internazionale, un modello di capacità e un esempio di successo.

Prima avvertivamo una forte reticenza dei cittadini, soprattutto nei territori controllati dalle mafie, a collaborare con le Forze dell’ordine. Rari ed esemplari erano i casi. Oggi si è completamente invertita la tendenza, e c’è una forte richiesta di sicurezza partecipata, di collaborare, denunciare, ma che sembra non essere sempre completamente soddisfatta. È un’analisi o una percezione sbagliata questa? E come invogliare ad una sempre maggiore collaborazione tra cittadini e Forze dell’ordine?

Partiamo da un concetto di base. L’attività estorsiva è parte integrante della identità mafiosa. L’estorsione non è solamente un processo parassitario di accumulazione; resta del tutto funzionale all’esercizio del potere mafioso che è anzitutto, come prima accennavo, radicamento territoriale. In tutto questo, raccogliamo apprezzabili segnali di rinnovamento. L’incisiva attività di contrasto della Magistratura e delle Forze dell’ordine, l’efficacia degli strumenti a sostegno degli imprenditori che vogliano intraprendere un percorso di legalità e, non ultima, l’indubbia maturazione dell’impegno civile contro la cultura mafiosa hanno alimentato comportamenti virtuosi. Si tratta anzitutto di una scelta di “dignità”: l’affermazione del proprio lavoro contro l’arroganza mafiosa. A questa progressiva presa di coscienza, tuttavia, non è estraneo anche il riconoscimento della “convenienza” a reagire, specie nell’attuale difficile congiuntura economica. Denunciare non solo è giusto, è utile. Perché la corda che oggi può essere offerta e che sembra salvare un’impresa dal fallimento, in breve si trasformerà in un cappio soffocante. Qui si apre una riflessione legata all’attuale situazione economica. La crisi generata dalla pandemia sta gradualmente erodendo la struttura portante dell’economia del nostro Paese e le organizzazioni criminali sono alla continua ricerca di imprese moribonde da “rianimare” attraverso liquidità di provenienza illecita. Una forma di estorsione che si presenta apparentemente per salvare l’imprenditore mettendogli a disposizioni capitali anziché sottraendoli, ed è per questo che spesso è la stessa vittima a cercare il suo carnefice che gli proporrà inizialmente strategie economiche e stratagemmi per evadere il fisco, chiedendo in cambio “soltanto” una partecipazione ai profitti. Ma in poco tempo l’organizzazione criminale spingerà per aumentare il debito fino ad una stretta sempre più asfissiante che finirà per strozzare completamente l’impresa. Negli ultimi quindici anni, solo con riferimento all’odioso fenomeno delle estorsioni, le denunce sono aumentate di oltre il 60%, passando dalle 5.740 del 2004, alle 9.274 del 2020, anche nei territori dove le espressioni mafiose sono endemiche. In tale contesto, l’articolato e capillare dispositivo delle Stazioni e delle Tenenze rappresenta un punto di riferimento costante e qualificato per il sistema delle autonomie locali, coniugando naturalmente e con immediatezza i princìpi di “prossimità” di polizia e di “sussidiarietà” rispetto all’intervento degli Enti locali. Per tornare alla realtà palermitana cui prima le facevo riferimento, il 26 gennaio scorso, il Comando Provinciale ha eseguito un fermo di indiziato di delitto nei confronti di 16 affiliati alle famiglie mafiose operanti nell’ambito del mandamento di “Tommaso Natale” responsabili, tra l’altro, di una serie di estorsioni in danno di commercianti e imprenditori edili. Nel corso delle indagini, cinque vittime hanno spontaneamente sporto denuncia presso presìdi dell’Arma, nella consapevolezza di trovare il pieno sostegno anche nelle delicate fasi di accertamento delle responsabilità degli autori”.

La pandemia da Covid-19 ha creato, purtroppo, ampie opportunità per le mafie di continuare la loro penetrazione nel tessuto dell’economia legale, nei tessuti sociali più deboli e a rischio povertà: quale può essere e deve essere la risposta a questa vera e propria emergenza sociale? Sono continue le operazioni, e non solo dell’Arma, di contrasto, ma cosa serve ancora perché possano essere eradicate queste organizzazioni criminali?

Indubbiamente, l’emergenza sanitaria ha fatto emergere un rilevante interesse della criminalità organizzata a sfruttare l’opportunità per investire, in Italia e all’estero, non solo durante le varie fasi di restrizioni dovute alle misure di contenimento ma anche in previsione dell’avvio all’auspicata “normalizzazione”. Durante il lockdown, l’elevata richiesta di dispositivi di protezione individuale e di macchinari sanitari da impiegare nei reparti di terapia intensiva degli ospedali, in assenza di un’adeguata offerta di mercato, ha rappresentato una possibilità di guadagno per le organizzazioni mafiose, tradizionalmente attive nei settori delle forniture. Così come nelle opere pubbliche, ove le mafie, avvantaggiandosi delle semplificazioni amministrative e burocratiche connesse con l’emergenza, hanno tentato di estendere il controllo nel settore dell’edilizia e dei rifiuti e di attingere agli ingenti investimenti comunitari e nazionali. Per questo aspetto, tra gli appalti maggiormente a rischio, è stato individuato quello legato soprattutto allo smaltimento di “rifiuti speciali ospedalieri”. Attraverso il mercato degli stupefacenti, settore criminale che anche nel periodo più critico della pandemia non ha subìto alcuna deflazione attraverso mutate strategie di commercio e importazione, le organizzazioni criminali più strutturate sono state in grado di mantenere sempre un’ampia disponibilità economica da reinvestire nei nuovi settori d’interesse. L’attuale periodo, afflitto dalla seconda ondata pandemica, ha poi determinato l’adozione di una serie di misure di contenimento in una situazione di crisi economica diffusa e a fronte di una sofferenza e di un sentimento di stanchezza soprattutto proprio nei tessuti sociali più deboli, che iniziano ad avvertirne più di tutti il peso. In antitesi, i sodalizi dispongono di ingenti somme di denaro e possono investire e trasformare le proprie risorse – che sono provento di reato – in economia legale, trasformando e riciclando il proprio denaro rilevando imprese e attività economiche in sofferenza. Il contesto economico-finanziario che si prefigura espone l’intero circuito produttivo e commerciale al rischio di infiltrazione da parte della criminalità organizzata, favorendo dinamiche corruttive e rapporti illeciti tra imprenditori, funzionari pubblici e organizzazioni criminali. Il settore più inquinato rimane quello degli appalti, soprattutto in quegli àmbiti in cui la P.A., al cessare dello stato di emergenza, dirotterà consistenti flussi di investimenti. Il più esposto è quello della filiera sanitaria, sia per le enormi risorse che saranno messe a disposizione sia per il controllo sociale che può garantire. Oggetto di interesse sono anche i fondi che verranno stanziati per il potenziamento di opere e infrastrutture, comprese quelle digitali: la rete viaria, le opere di contenimento del rischio idrogeologico e per la riconversione a una green economy, le reti di collegamento telematico e l’intero ciclo del cemento. Tutte considerazioni queste, che hanno indirizzato lo strumento di prevenzione e repressione dell’Arma attraverso l’analisi proveniente dai Comandi territoriali e dai Comparti di Specialità, attraverso analisi aggiornate e condivise anche nell’ambito dell’“Organismo Permanente di monitoraggio ed analisi sul rischio di infiltrazione nell’economia da parte della criminalità organizzata di tipo mafioso” a cui l’Arma ha aderito con entusiasmo sin da subito. La pandemia, inoltre, è stata un acceleratore della trasformazione digitale, e anche questa è una delle sfide a cui l’Arma sta adeguando i propri strumenti investigativi attraverso le attività di web patrolling ove si stanno già distinguendo i differenti comparti di specialità, primo fra tutti il Comando Carabinieri Tutela della Salute. Proprio il Comando CC Tutela della Salute è oggi in prima linea per rilevare carenze organizzative delle strutture sanitarie, ospedaliere e assistenziali (soprattutto per anziani) nella gestione dell’emergenza, e sull’individuazione di possibili situazioni connesse con l’introduzione illegale sul territorio nazionale e la somministrazione di prodotti vaccinali e prodotti farmaceutici privi di autorizzazione. Con riferimento agli interessi della criminalità organizzata connessi con l’emergenza sanitaria, rilevano due attività investigative recentemente concluse dall’Arma – una in Sicilia e una in Campania – che confermano il tentativo di imporre un “welfare criminale di prossimità” attraverso forme di usura mascherate. Le operazioni si susseguono quotidianamente ma è importante che la società civile acquisisca piena coscienza di quello che può accadere a medio e lungo termine se ci si affida alle offerte della criminalità denunciando ogni tentativo di inserimento nel tessuto economico locale.

L’intervista è disponibile anche in inglese https://www.leurispes.it/mafia-has-a-marketist-face-interview-with-the-general-commander-of-the-carabinieri-arma-general-teo-luzi/

[1] 26 aprile 1973. Audizione innanzi alla Commissione parlamentare antimafia.

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