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Intervista con Carlo Stagnaro

22 gennaio 2002

Nel 1993 a Waco, Texas, Stati Uniti d’America, dopo 51 giorni di assedio da parte delle forze dell’ordine contro la sede dei Davidiani, perdono la vita 76 persone: moltissime le donne e i bambini. Una strage dimenticata da tutti. Su essa ha indagato Carlo Stagnaro, autore del libro “Waco: una strage americana”. Clorofilla lo ha intervistato e ha parlato con lui di temi delicati come il diritto all’autodifesa, la militarizzazione delle polizie, la restrizione delle liberta dopo l’11 settembre e il diritto all’errore contro il controllo globale delle nostre vite da parte di qualsiasi governo.

Come è nata l’idea e l’esigenza di scrivere sulla strage di Waco?

“Le immagini che vidi in televisione della strage mi sconvolsero. Poi, anni dopo, grazie a Internet potei trovare molto materiale e approfondire la questione, cosa che feci appunto perché i  fotogrammi del ranch in fiamme mi avevano colpito violentemente. Quando mi resi conto di averne abbastanza per farne un libro, avanzai tale proposta a Marcello Baraghini, editore di Stampa Alternativa. Egli accettò e il risultato della mia ricerca (che si è svolta, lo ribadisco, in massima parte sulla Rete) è il libro. La ragione principale per cui l’ho fatto, dunque, è l’amore per la verità e anche – non lo nascondo – la curiosità per una vicenda così anomala e fuori dalle righe. Semplicemente, quello che ho trovato in italiano era materiale scadente e ben poco convincente, con rarissime eccezioni (voglio citare gli scritti di Marcello Gardani e Massimo Introvigne). Ma neppure questi fornivano una puntigliosa ricostruzione di ciò che si era verificato”.

Qual è il tuo punto di vista personale su Waco, cosa è accaduto realmente?

“Difficile dirlo. Troppi sono i punti oscuri. Voglio precisare che quanto sto per dire è pura supposizione, basata sugli elementi di ragionevolezza e sugli eventi noti che sono riuscito a raccogliere. Il mio scopo, infatti, è stato quello di mettere di fronte a tutti i punti di luce e di ombra, senza con questo avere la pretesa di svelare i misteri. In ogni caso, bisogna distinguere almeno due momenti: il primo è quello dell’assalto alla comunità davidiana (28 febbraio 1993); il secondo quello del rogo (19 aprile dello stesso anno). Il raid iniziale è avvenuto, probabilmente, perché il BATF (Bureau of alochol, tobacco and firearms) aveva bisogno di visibilità. Esso non godeva di una buona fama e di lì a poco si sarebbe discusso il suo bilancio. Così si trovò un obiettivo per cui si pensava che la maggior parte degli americani non avrebbero provato simpatia. In effetti i Davidiani avevano uno stile di vita alquanto bizzarro, che io stesso non esito a rifiutare. Essi, però, non facevano nulla di male: semplicemente, erano persone strane che vivevano in modo strano (cioè lontano dalla normalità), ma nessuno di loro si trovava a Mount Carmel perché costretto, tutti vi erano per libera scelta. Alla base dell’azione del BATF vi fu anche, io credo, un terribile errore: i funzionari di quell’agenzia federale pensavano che i Davidiani si sarebbero arresi subito, senza creare alcun problema. Invece i Davidiani (che identificavano il governo federale con “Babilonia”, cioè il regno del male, e che stavano aspettando la fine del mondo) reagirono da fanatici e si asserragliarono nella propria residenza. E’ lecito criticarli per questo loro comportamento? Come si può biasimare colui che risponda al fuoco col fuoco, agli spari con gli spari, all’aggressione con la resistenza? In ogni caso, da qui ebbe inizio un lungo assedio, che durò 51 giorni. Poi a partire dal 1° marzo la direzione delle operazioni fu assunta dall’FBI”.

E cosa accadde?

“Furono settimane estenuanti sia per gli assedianti che per gli assediati (fra i quali erano molte donne e bambini). Infine, il governo americano decise di costringere i Davidiani a uscire dall’edificio in cui si erano asserragliati, e per farlo pianificò un attacco con un gas lacrimogeno chiamato CS e bandito dagli accordi internazionali. Quello che gli Usa si erano impegnati a non utilizzare contro nemici stranieri venne impiegato contro cittadini americani. Durante l’attacco, l’edificio prese fuoco e 76 persone morirono divorate dalle fiamme. Anche qui, non credo che l’incendio sia stato appiccato volontariamente, né dagli aggressori né dagli aggrediti. Si è detto che fu suicidio collettivo, ma trovo assurdo che persone che stanno per suicidarsi chiedano (come fecero i Davidiani) di sospendere l’attacco e di parlare con la stampa. Senza contare che tutti i sopravvissuti smentiscono questa ricostruzione. Io propendo per una disgraziata casualità, la quale però si è potuta verificare solo a causa della totale incapacità del governo americano e delle sue truppe a comprendere che tipo di nemico avevano di fronte. A monte, vi è il colpevole e consapevole sacrificio di un gruppo di cittadini in nome della “ragion di Stato”, cioè dell’esigenza di far fare bella figura ai soldati (non oso chiamarli poliziotti) americani”.

Secondo te, perché è calato il silenzio su questa strage? Forse perché i media, dando l’immagine di una setta impazzita, hanno giustificato per il pubblico un massacro?

“A mio parere le ragioni sono almeno due. La prima è la superficialità con cui i nostri media trattano ciò che accade all’estero. Le pagine dei quotidiani dedicate ai paesi stranieri sono in assoluto, e salvo pochissime eccezioni, le peggiori. La seconda ragione è più profonda. A noi piace pensare che, dopo la Seconda Guerra Mondiale e ancor più dopo l’89 e il ’91, la storia sia finita. Esiste solo la cronaca. Naturalmente, sono tante le cose che vanno storte; ma in questo schema utopistico le cose non possono andare così storte come a Waco. Oltretutto, Waco non si trova in qualche luogo sperduto, ma nel cuore della democraticissima America. La vicenda che ha avuto per protagonista David Koresh, insomma, è in grado di smentire tonnellate di luoghi comuni e buoni propositi; essa può portare a criticare l’intero sistema di “valori” su cui si reggono gli Stati moderni (centralizzati, nazionali, democratici). E allora si evita di parlarne, oppure si riduce tutto a film trash: ci si inventa la setta di pazzi, il suicidio collettivo, il poliziotto buono disposto anche a ucciderli, ma solo per il loro bene. Poi, però, capitano anche cose che non è possibile evitare. E così l’11 settembre ci ha mostrato che la storia non è finita, ma va avanti, sempre avanti. Con noi o senza di noi”.

Dopo gli attentati dell’11 settembre, come è cambiata la libertà del cittadino americano e in generale dell’Occidente?

“Bin Laden ha vinto. Non perché abbia distrutto le due torri. E neppure perché vi sia qualche speranza per i suoi talebani di resistere all’attacco dell’esercito più potente del mondo. Bin Laden ha vinto perché ha risvegliato la Fallaci che è in noi, perché è riuscito a tirare fuori tutto il peggio che c’è nell’uomo. Ha precipitato l’intero Occidente in una folle paura, creando un’occasione che gli uomini politici in tutto il mondo hanno saputo cogliere al balzo. Così, oggi, in nome della sicurezza la gente è disposta a rinunciare alla propria libertà. Seguendo, tra l’altro, un ragionamento surreale: credendo cioè che sia possibile vivere più sicuri riempiendo la vita degli uomini onesti di sbarre e di muri, e illudendosi che i disonesti, i criminali e i terroristi rispetteranno la legge! D’altronde, l’unico posto in cui un uomo è circondato da sbarre e da muri è una prigione. Non importa quanto dorata sia la cella: Bin Laden è riuscito a farci metterci ordinatamente in riga e varcare tutti la soglia del carcere”.

Dal tuo libro si deduce che Waco è stato un vero campo di battaglia, con l’impiego di armi di guerra. La politica del controllo sta militarizzando sempre più la polizia nei territori urbani, con quali conseguenze?

“Un poliziotto è, in teoria, un funzionario di pace. Egli deve garantire per quanto possibile l’incolumità di tutti; deve avere uno scrupoloso rispetto della Costituzione e della legge, e in particolare egli sa che le persone con cui ha a che fare sono innocenti fino a prova contraria. Un militare, al contrario, è addestrato per uccidere; egli non deve “trattare” o “convincere” i propri nemici, ma neutralizzarli. Quanto più i due mondi si mischieranno, tanto più i tutori dell’ordine violeranno i diritti fondamentali dei cittadini. Non parlo solo dell’equipaggiamento della polizia, che ormai è militare. Pensa all’addestramento che molti corpi ricevono, o anche solo al linguaggio: non parliamo noi forse, per esempio, di “guerra” alla droga? Dove credi che ci porterà questa deliberata confusione tra un linguaggio militare e le funzioni civili?”.

In un’intervista che hai realizzato con Lemieux, dichiari che il diritto di secessione è il diritto di un individuo di stare da solo. Cosa intendi?

“Se noi crediamo che ogni individuo nasca con il diritto di essere libero, se cioè pensiamo che esistano dei “diritti naturali”, dobbiamo anche ammettere che lo Stato è una struttura giuridica che esiste, nella migliore delle ipotesi e sui libri della favole, con il consenso dei governati. Ma come comportarsi nel caso in cui un gruppo di governati ritiri la propria delega? E, ancora a maggior ragione, che fare se un solo governato decide di negare la propria delega? Può un governo imporre il proprio volere a chi non lo riconosca? Si tratta di questioni molto profonde, che investono il più grande dilemma della filosofia politica: cosa distingue il governo da una comune banda di criminali? La mia risposta è che nulla lo distingue, se non l’estensione e la dimensione orrenda dei crimini che esso commette. Nessun bandito di strada ha mai rubato, schiavizzato e ucciso tanto quanto un governo. In questo senso, la secessione è il diritto di colui che proclama la propria indipendenza e la propria volontà di far da sé: vivendo coi propri mezzi e con i frutti degli scambi con altri individui. Per dirla con le parole di Gianfranco Miglio, la secessione è il diritto di stare “con chi si vuole e con chi ci vuole”.

Nel tuo sito e nei tuoi articoli c’è una chiara presa di posizione per il diritto all’autodifesa, cioè al porto d’armi. Un argomento molto contestato qui in Italia. Puoi spiegarci la tua posizione?

“Semplicemente, se noi ammettiamo che ogni uomo abbia dei diritti e che fra questi diritti vi siano la vita, la libertà e la proprietà, dobbiamo anche riconoscere il suo diritto di difendersi. Le armi sono oggetti utili all’autodifesa. Punto. La tipica obiezione, naturalmente, è che le armi “uccidono”. A questo, mi viene voglia di replicare con le parole dell’anarchico francese Félix Fénéon quando venne fermato perché aveva un’arma da fuoco. Il giudice gli disse: “Lei ha tutto quello che le serve per commettere un omicidio”. Egli rispose: “Se è per questo, ho anche tutto quello che mi serve per commettere uno stupro”. Qualcun altro dirà che le statistiche dimostrano che le armi provocano violenza. Questa è una baggianata. Non solo per un fatto puramente “numerico” (consiglio a tutti di guardare con attenzione i numeri dei paesi “armati” e di quelli “disarmati”: ti senti più sicuro a Bellinzona, dove tutti hanno un fucile, o a Milano, dove non ce l’ha nessuno?). Dire che “le armi uccidono” o che “provocano la violenza” significa dire che questi oggetti inanimati godono di qualche arcano potere, tale da trasformare il loro possessore in un cruento macellaio. Non sono le armi che uccidono; sono gli uomini. Tutti noi abbiamo la facoltà di scegliere liberamente quali azioni compiere. Vi sono uomini buoni, che userebbero le armi solo per legittima difesa o per soccorrere altri in difficoltà, e vi sono uomini cattivi, pronti a impiegare le armi per compiere il male. Allora io ti giro la domanda: secondo te, quale di queste due categorie rispetterà le leggi sulle armi? Infine, una constatazione. Se tu fondi una legge su una statistica, implicitamente ammetti che i miei diritti sono funzione di ciò che gli altri fanno. Cioè, io non posso detenere armi perché altri le usano male… non trovi che ci sia qualcosa che non va?”.

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