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Intervista con Romano Montesarchio

Che cosa ti ha spinto a filmare la Domitiana e le sue storie?

“Sono di Caserta, provincia nella quale ricade buona parte della strada Domitiana, e sin da piccolo ho sentito parlare delle Domitiana come un luogo terribile dove tutti i mali del sud trovavano terreno fertile. Nel mio immaginario di adolescente era come una sorta di confine nel quale è meglio non avventurarsi. Eppure molti miei amici ci trascorrevano lunghe vacanze dalle quali ritornavano  sereni ed abbronzati, facendo sì che ogni anno mi chiedessi sempre come facessero a convivere nello stesso luogo abusivismi, camorre, immigrazioni clandestine e salutari abbronzature. E’ così che appena ho potuto ho deciso di varcare la soglia di questo posto eccezionale. Forse è nato già lì l’impulso a raccontare questa strada dove tutto è il contrario di quello che avrebbe potuto e sarebbe dovuto essere”.

Nel documentario è inquietante l’affermazione di un ragazzo di colore che candidamente ammette  l’implementazione del Terzo Mondo sulle nostre strade.

“Il terzo mondo in Occidente è il grande esperimento, consapevole ma incontrollato, della Domitiana ed è un concetto che condivido. Qui, in molte zone, gli immigrati africani sono la maggioranza della popolazione e si sono instaurati meccanismi sociali e religiosi da terzo mondo. Migliaia di “neri”  sono tollerati sulla Domitiana da più di trent’anni e non c’è mai stata una qualsiasi volontà o forma d’integrazione con la comunità locale. Eppure buona parte dell’economia del posto gira intorno agli immigrati, che però non ne godono.  E’ chiaro che lo Stato ha voluto questo nel momento in cui prima relega tutti gli immigrati, regolari e non, che arrivano in Campania e poi tollera le tante attività al limite della legalità che proliferano attorno al fenomeno immigrazione. Ma l’assurdo è che qui lo Stato, più di tutto, dimentica ed in alcuni momenti potrebbe sembrare di non essere in Italia”.

Il tuo viaggio sulla Domitiana si scontra con realtà stridente, da una parte campi da golf e hotel a cinque stelle, dall’altra vere e proprie bidonville, come leggi questi contrasti.

“Questa è la conferma del modello terzo mondo. Estrema ricchezza ed estrema povertà convivono ai lati della stessa strada senza mai incontrarsi. Sulla Domitiana la classe media la intravedi di passaggio solo nelle auto che la attraversano veloci. Inoltre dal mio punto di vista è stato interessante e divertente inquadrare da un lato la continua richiesta del necessario e dall’altro la costante offerta del futile”.

Filmare la Domitiana, viaggiare con una telecamera in spalle in terra di camorra, ti ha comportato dei rischi?

“Sempre o mai, dipende dai punti di vista. Ne sono uscito vivo e quindi mai. Non ho avuto un momento di tranquillità e quindi sempre. Ad ogni modo prima di cominciare a filmare sapevo che avrei corso dei rischi, per cui avevo messo in preventivo che avrei subito delle perdite. Diciamo che mi sono dato delle regole anche perché spesso lavoro da solo. In questi luoghi prima d’imbracciare la camera devi sempre guardarti intorno e vedere le facce di chi ti circonda. Poi devi essere veloce e poco visibile anche se devi dichiararti come complice agli occhi diffidenti di chi ti reputa uno scomodo intruso. E poi ho sempre mentito su quale fossero i temi del racconto. Ciò nonostante ho subito innumerevoli intimidazioni a non filmare, lanci di pietre, ed una rapina con tanto di furto di attrezzature e rottura della macchina. Mi si potrebbe dire che me la sono cercata, ma era un rischio necessario per non tornare a casa a mani vuote”.

Il tuo lavoro è uno sguardo lucido sull’essenza stessa dell’abbandono che una gran parte di territorio subisce continuamente, quasi fosse un territorio fantasma, come lo spieghi questa situazione?

“Credo ci sia interesse a tenere questo territorio nell’abbandono sia sociale che umano. E’ la valvola di sfogo di una Campania satura di problemi di ogni genere. E’ la deriva di una società allo strenuo che non ha più nulla da proporre se non talenti camorristici, gli unici in grado di saper approfittare e ricavare qualcosa da questo stato di abbandono. Inoltre qui il vuoto coincide con il degrado e mi sono spesso soffermato sui luoghi assenti della Domitiana che sono tanti e riguardano ex fabbriche, ex cliniche, ex alberghi di lusso ed ex abitazioni. Sono la materializzazione di uno sviluppo mancato”.

Durante la lavorazione del documentario ci sono stati momenti, luoghi e situazioni che ti hanno colpito particolarmente?

“Su tutto  la cecità delle istituzioni nei confronti di questi territori. I paroloni dei politici, degli imprenditori e di chiunque gestisce questo luogo sono una costante anche all’interno del documentario ed i luoghi felici dal quale vengono pronunciati sono ciò che più mi ha colpito. Sono una rarità da queste parti. Al degrado e all’abbandono ci fai una dolorosa abitudine, sono l’amara conseguenza di quei pochi luoghi dove si decide la sorte di tutto un territorio”.

C’è nel documentario una scena terribile: una fantomatica associazione di nigeriani vuole ripulire le strade dalla prostituzione, e lo fa picchiando le donne in strada.

“E’ grottesco e surreale, ma è vero. Questo è un esempio di quando si dice che la realtà supera la fantasia. Sulla Domitiana è possibile anche questo e per di più puoi avere anche il benestare  delle istituzioni che tanto non controlleranno mai come porterai avanti un’iniziativa”.

Un’altra scena che mi ha impressionato molto, è l’esecuzione del silenzio da parte di un trombettista per ricordare la vittima di camorra Domenico Noviello, sembrava una sequenza alla Sergio Leone.

“Diciamo che doveva essere un momento epico e commemorativo del racconto. Il silenzio si suona per le vittime di guerra e quella sequenza, involontariamente da parte mia, dice più di tutto cosa significa vivere onestamente in questi luoghi. Domenico Noviello è stato ucciso perché quindici anni fa aveva denunciato il pizzo, ma la camorra ha la memoria lunga e con quest’omicidio ha voluto sancire che in tempi di guerra non si fanno sconti a nessuno. Per cui è giusto suonare il silenzio  per una vittima come Noviello, ma una tromba non può contrastare un kalashnikov  e se non si ha un esercito alle spalle suona ridicola. Per il resto, a proposito della sequenza, ringrazio e chiedo scusa a Sergio Leone”.

Qual ‘è la situazione italiana del documentario italiano, c’è sostengo a questa forma di narrazione che ha largo seguito all’estero?

“L’offerta è superiore alla richiesta. Mi spiego. In Italia abbiamo sempre avuto un’ottima tradizione documentaristica (vedi Rossellini, Zavattini, Pasolini, Olmi etc) e da qualche anno c’è un grosso fermento legato a questo genere. Inoltre le tecnologie digitali hanno facilitato la realizzazione di questo tipo di prodotti sia da un punto di vista tecnico che economico. Quindi con una buona idea, pochi soldi ed un poco di mestiere si può fare un  film documentario. Purtroppo in Italia ci sono pochi spazi a disposizione per farli vedere questi film. Lo Stato elargisce pochissimi fondi, le televisioni sono invase dai format ed i cinema prediligono i film di finzione. Rimangono i Festival ed alcune audaci sale d’essai, che sono l’unica vetrina privilegiata per il cinema del reale. Ma sono solo delle piacevoli nicchie di resistenza. Quindi nessuno investe e i documentaristi agiscono più per vocazione che per lavoro. Ad ogni modo credo che il documentario di creazione (che si distingue da quello scientifico e dal reportage giornalistico sia per tematiche che per stile narrativo) attualmente sia il linguaggio filmico che più di tutti apre una finestra sincera sul mondo di oggi e che, nonostante si cerchi in tutti i modi di chiuderla questa finestra, ci sia una grande necessità di fare e di vedere questi lavori”.

Il tuo prossimo documentario dove sarà ambientato e quale storia racconterai?

“Sono a buon punto per la preparazione di un film che parte dall’Italia ed arriva in Kosovo. Racconto la storia di un giovane ragazzo kosovaro che circa undici anni fa è stato rapito e portato in Italia in un campo rom. Da allora ha perso ogni traccia dei propri genitori ed in seguito ai numerosi e violenti maltrattamenti subiti ha perso anche buona parte delle memoria legata alla sua infanzia in Kosovo. Oggi il ragazzo è un ventenne sano con un tutore affettuoso ed un centro per ragazzi immigrati alle spalle, ma ha un vuoto esistenziale enorme dentro di se. Deve assolutamente ritrovare i genitori per tutta una serie di motivi sia umani che istituzionali. Il film documentario racconta la storia di questo ragazzo e dell’incredibile viaggio a ritroso che ha deciso di affrontare tra i villaggi rom del Kosovo alla ricerca dei genitori e della sua vera identità”.

left avvenimenti 3 ottobre 2008

 

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