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Io, per fortuna c’ho la camorra: Narcomafie

narcomafie

recensione di Pietro Nardiello

Del reportage di Sergio Nazzaro Io per fortuna c’ho la camorra sono soprattutto le ottime capacità narrative a colpire. Dato alle stampe per Fazi editore, il libro è un percorso in quell’area geografica che va dall’agro aversano al litorale domizio, dai confini con il Lazio all’agglomerato nord di Napoli; una sorta di estesa favela nostrana «dove la violenza è patrimonio di tutti, le strade non sono tali e il cemento trova un drammatico trionfo». Un mondo abitato da “invendibili”, persone escluse dal mercato del lavoro e per questo, come dice il titolo, “per fortuna” hanno la camorra. Un condensato di ventiquattro ore in terra di camorra, un resoconto duro, crudo, emulo del Gomorra di Saviano, che, in copertina, firma una nota.
Muratori abusivi, avvocati cocainomani, vedove di morti ammazzati: la penna del cronista racconta di un mondo a stento registrato dai media, se non per riportare tragedie di cronaca nera. Nazzaro lo fa, usando il lessico del luogo, che si colora di espressioni mutuate dal mondo delinquenziale e dalle sue azioni: come “quella del botto”, per indicare l’uso di bombe per intimidire commercianti non disposti a piegarsi alla prebenda del pizzo. Si sofferma su storie dimenticate troppo in fretta. Vicende che, invece, per i camorristi di questa zona hanno rappresentato e rappresentano pericolosi simboli da cancellare. Come quella di Federico Del Prete, commerciante deciso ad opporsi al racket. Fondatore dello “Snaa”, sindacato nato in un territorio dove i diritti sono concessioni, fu assassinato perché denunciò un vigile urbano che riscuoteva il pizzo al mercato di Mondragone per il clan della zona.
Io per fortuna c’ho la camorra è un’estrema provocazione contro lo Stato. Come nella migliore tradizione del reportage letterario, Nazzaro prosegue approfondendo temi scottanti, indicando contiguità e connivenze tra politica e camorra, tra lo Stato e la criminalità. A San Cipriano D’Aversa, per esempio, il locale comando dei vigili urbani era diventato una centrale del clan in cui si si spacciava droga e si organizzavano riunioni di camorra.
Un territorio, questo, dove gli appalti vengono assegnati non per meriti e capacità imprenditoriali; un territorio sviluppatosi nel nulla grazie a una speculazione edilizia – da Castel Volturno a Pescopagano, da Baia Domizia a Mondragone – mascherata come una grande operazione di riscatto per questa fetta di Sud; un territorio dove discutere di coscienza civica o di emancipazione sembra una chimera, dove la prima regola che si insegna è quella del silenzio e dove i morti ammazzati rappresentano semplici numeri «per rafforzare le statistiche o il trafiletto che la cronaca locale l’indomani riporterà»; un territorio dove i “bravi avvocati” considerano i veri camorristi brave persone “perché puntuali nei pagamenti”.
Nazzaro conosce bene la terra di cui parla e i motivi che costringono tutti a vivere precariamente, rincorrendo sempre il favore di qualche amico o intermediario influente.
In fondo però, conclude ironicamente l’autore, non ci si può proprio lamentare del tutto, perché «almeno qui non è come a Milano e Bologna, dove ormai le coppiette vengono assalite e stuprate da immigrati clandestini. Da queste parti tali assurdità non accadono perché per fortuna c’è la camorra».
Il reportage, sospeso tra l’inchiesta e la narrazione, risulta un lavoro convincente al quale, però, si sarebbero potuti aggiungere più dati, cifre e nomi, in alcuni casi mancanti, che ne avrebbero fatto una completa opera di denuncia. 

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