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La lettera più lunga: la storia

“Mie care sorelle e cari fratelli palestinesi, sono venuto nella vostra terra e ho riconosciuto tratti della mia terra. Una volta, nella mia terra, c’erano persone che credevano di poter costruire la loro sicurezza sull’insicurezza degli altri”. Con queste parole, Esack Farid, studioso islamico, comincia la lettera più lunga mai scritta su un muro. Farid è membro della conferenza mondiale delle religioni per la pace, sudafricano, è stato tra i più attivi nella lotta contro l’apartheid. Nelson Mandela, nel 1996, lo designa Commissioner for Gender Equality, supervisore per l’uguaglianza dei diritti. In Pakistan, dove si forma alla scuola coranica di Karachi, lotta contro le discriminazioni dei cristiani e di altre minoranze religiose. Farid è attivo anche Positive Muslim, un’organizzazione che aiuta i musulmani sieropositivi.

La lettera è stata scritta sul muro costruito dagli israeliani in Palestina. A Ramallah, per l’esattezza ad Al-Ram, vicino al check point di Qalandia. 2625 metri, 1998 lettere, 11643 caratteri. Per realizzarla ci sono 345 bombolette di spray, 173 litri di pittura bianca per lo sfondo, ad un’altezza di quattro metri. 27 giorni di lavoro, dalle dieci del mattino alle dieci di sera. 150 metri al giorno. 20 volontari al lavoro.

L’idea nasce da Justus Van Oel, in Olanda. Scrittore, sceneggiatore, tra le sue collaborazioni diverse con Theo Van Gogh. “Ho creato un workshop in Palestina, palodutch.nl, che cerca idee pubblicitarie che permettano di diffondere idee, che facciano sentire la voce dei palestinesi. Non sono nato attivista, assolutamente. Ma non dirmi che qualcosa è impossibile, altrimenti la faccio!”. Justus spiega i punti base dei workshop che organizza in Palestina: “Alcuni era contrari, usarlo o ignorare il muro? Bisognava cercare qualcosa di facile realizzazione, che potesse essere spiegato facilmente ai media e che producesse denaro, non elemosina. Così è nato sendamessage.nl. L’apporto necessario è stato dato anche da Faris Arouri dalla Cisgiordania, e Zaher da Nzareth. Mandi un messaggio, lo paghi, lo scriviamo sul muro, e tu ricevi una foto. Messaggi d’amore, promesse di matrimonio, e cose così. Un’idea sostenibile e che comunque richiamasse l’attenzione della gente su ciò che accade in Palestina. Poi abbiamo pensato che, chi vive in quel posto, avrebbe letto messaggi di persone che hanno una vita. Leggi la vita degli altri sul muro della tua prigione. Una lettera aperta era il nostro modo di ringraziarli per la pazienza e la tolleranza”.

Faris Arouri ha meno di trenta anni, è responsabile del forum giovanile per la pace e la libertà della Cisgiordania: “Abbiamo chiesto a Farid di scrivere la lettera perché è uno studioso conosciuto anche in Occidente e quindi credibile”. Ma quali sono stati i problemi nello scrivere una lettera cosi? Faris è stato sul campo tutto il tempo della realizzazione:” Uno dei problemi maggiori è stato il tempo. Abbiamo cominciato il progetto in primavera, e non sapevamo mai il giorno dopo se c’era il sole o la pioggia. Un altro problema sono state le risorse umane, se vogliamo chiamarle così. Tutti hanno lavorato nel loro tempo libero, e 2600 metri di lettera non sono pochi da realizzare. Anche i soldi sono un problema. Non abbiamo avuto sponsorizzazioni da nessuna fondazione o organizzazione. Abbiamo bisogno di sponsor”. Realizzare un simile progetto in una zona di guerra, perché questa è la realtà, non è una questione semplice: “C’è stata una presenza costante delle forze armate israeliane, che comunque danno molto stress. Però non sono mai intervenute o hanno arrestato qualcuno”, Justus spiega anche il perché della scelta di quella sezione di muro, “la scelta di quella parte del muro è stata dettata dalla sicurezza che offriva. Molte persone vivono nelle sue vicinanze, ci si può arrivare in macchina facilmente e puoi spiegare alla stampa internazionale con facilità il posto: entra al checkpoint di Qalandia e gira a destra”.

La popolazione palestinese ha reagito bene alla presenza dei writers, già abituati ai messaggi provenienti da tutte le parti del mondo, hanno visto materializzarsi sotto i loro occhi le parole di Farid: “ Moralità è la capacità di muoversi oltre gli interessi di uno specifico gruppo etnico, comunità religiosa, o di una nazione. Quando la visione del mondo di un singolo è completamente centrata su se stesso, che sia in nome di una religione, della sopravvivenza, della sicurezza o della razza, è soltanto e semplicemente una questione di tempo che qualcuno diventi una vittima”. Faris e Justus descrivono nel bene e nel male la partecipazione dei palestinesi” le persone ci hanno portato da mangiare, da bere, e qualcuno ha anche rubato i nostri computer, i passaporti. Anche qui a Ramallah, sono persone come tutti noi, mica santi!”. La lettera è oggi visibile, completata, anche se non tutti i segmenti sono stati sponsorizzati. Ma lo si può fare ancora. La lettera c’è. Il suo messaggio è letto ogni giorno. “Mi auguro che questo progetto possa attirare l’attenzione dei media internazionali”, Faris entra nel vivo del progetto, “che vi sia attenzione sul Muro e la politica razzista d’Israele. Vogliamo mostrare anche un altro volto del popolo palestinese e non solo quello stereotipato delle televisioni. La pace ha un prezzo da pagare. Noi lo abbiamo già pagato. Abbiamo accettato questo fatto. Sono gli israeliani che ancora non lo hanno accettato”. Justus articola ancora di più il pensiero: “Gli Israeliani non vogliono accettare I cambiamenti. E lo faranno solo quando saranno forzati. L’Apartheid è crollata sotto il peso delle sanzioni internazionali. Israele è paralizzata dal trauma e dalla paura, che è assolutamente comprensibile. Mi sembra il dilemma del padrone della piantagione: non può liberare I suoi schiavi, perché gli schiavi sono arrabbiati con il padrone. Sono gli stessi schiavi che creano la loro condizione. Perché non sentono ragione e sono incazzati, e il padrone della piantagione rischierebbe la sua vita, se libera gli schiavi. Comprensibile. Ma solo se consideri la schiavitù il male minore e la rabbia degli schiavi il vero problema. Il padrone rigetta l’idea di schiavitù, ma non cambia. Perché i suoi prodotti vengono acquistati. Cambiare sarebbe anche tradire la memoria degli antenati da cui ha ricevuto la piantagione. Se invece, fossero boicottati, non troverebbe nessun guadagno in portare avanti una politica che non gli appartiene”.

Il progetto di sendamessage.nl, di creare idee, di creare business creativo e attivo nel campo dei diritti civili sorprende per la sua freschezza. Moltissime sono le parole spese sulla questione palestinese, tra torti e ragioni. Mai nessuno aveva pensato che un confronto così complesso e aspro potesse essere combattuto con le parole, per davvero. Far tacere le armi, le aggressioni, e lasciare che i pensieri prendano forma e sostanza. L’idea di una lettera di oltre due chilometri e mezzo è affascinante. I muri che diventano carta da lettera, non più assurde idee di cemento che vogliono separare. L’Europa ha festeggiato con gioia, se non con isterismo, la caduta del Muro di Berlino. Ed oggi guarda con superficialità ad un muro lungo oltre settecento chilometri e alto otto metri. Un’assurdità che accade nel 2009. Non importa quali siano le idee in merito. Non si può usare la scusante pro palestina o pro israele, per non condannare de facto la costruzione di un manufatto che riporta l’orologio della storia, ma anche della stessa civilizzazione, indietro, alle sue ore più buie. Nella mia ingenuità o chiesto a Faris se non fosse il caso che gli israeliani rispondessero con un’altra lettera. Dall’altra parte del muro. Le armi della cultura, delle idee, al posto delle bombe al fosforo. “Non credo che sia possibile, semplicemente perché dall’altra parte non ci sono israeliani. Ci sono sempre palestinesi, tagliati fuori dalle loro terre, dalle loro case, dai loro negozi. Non è stato costruito sul confine tra Cisgiordania e Israele, ma per la maggior parte nel territorio palestinese”. La risposta mi lascia stupito. Non si costruiscono più i muri sui confini, almeno a Berlino, se scavalcavi eri ad Ovest o Est. Qui no. Non si può rispondere ad una lettera con una lettera. Il muro diventa preventivo, fa un passo in avanti, nel territorio del pensiero dell’altro. Non marca un confine, costruisce una divisone insormontabile. Eppure una lettera c’è, lunga appassionata, che si può dibattere, argomentare, e il cemento grigio di quel muro vive di pensieri e domande. Dubbi e proposte. E si mischia alle promesse di eterno amore, di amicizia, di saluto. Su un muro che vuole delimitare si ritrova il mondo con le sue diverse facce: tra attivismi, impegno civile e una frase per un amico lontano. I palestinesi osservano il mondo esterno, ma ancora non lo possono vivere.

Diventa sponsor: con soli 15 euro puoi sponsorizzare un segmento della lettera. Lo firmi, lo dedichi. La lettera ha bisogno di sostegno economico per le spese sostenute, tutte le informazioni possono essere lette all’indirizzo: longest letter

pubblicato sul quotidiano  Terra domenica 31 maggio

il testo in inglese della lettera:

My dear Palestinian brothers and sisters, I have come to your land and I have recognized shades of my own. My land was once one where some people imagined that they could build their security on the insecurity of others. They claimed that their lighter skin and European origins gave them the right to dispossess those of a darker skin who lived in the land for thousands of years. I come from a land where a group of people, the Afrikaners, were genuinely hurt by the British. The British despised them and placed many of them into concentration camps. Nearly a sixth of their population perished.

Then the Afrikaners said, ‘Never again!’. And they meant that never again will harm come unto them with no regard to how their own humanity was tied to that of others. In their hurt they developed an understanding of being’s God chosen people destined to inhabit a Promised Land. And thus they occupied the land, other people’s land, and they built their security on the insecurity of black people. Later they united with the children of their former enemies – now called “the English”. The new allies, known simply as ‘whites’, pitted themselves against the blacks who were forced to pay the terrible price of dispossession, exploitation and marginalization as a result of a combination of white racism, Afrikaner fears and ideas of chosenness. And, of course, there was the ancient crime of simple greed.

I come from Apartheid South Africa.

Arriving in your land, the land of Palestine, the sense of deja vu is inescapable. I am struck by the similarities. In some ways, all of us are the children of our histories. Yet, we may also choose to be struck by the stories of others. Perhaps this ability is what is called morality. We cannot always act upon what we see but we always have the freedom to see and to be moved.

I come from a land where people braved onslaughts of bulldozers, bullets, machine guns, and teargas for the sake of freedom. We resisted at a time when it was not fashionable. And now that we have been liberated everyone declares that they were always on our side. It’s a bit like Europe after the Second World War. During the war only a few people resisted. After the war not a single supporter of the Nazis could be found and the vast majority claimed that they always supported the resistance to the Nazis.

I am astonished at how ordinarily decent people whose hearts are otherwise “in the right place” beat about the bush when it comes to Israel and the dispossession and suffering of the Palestinians. And now I wonder about the nature of “decency.” Do “objectivity,” “moderation,” and seeing “both sides” not have limits? Is moderation in matters of clear injustice really a virtue? Do both parties deserve an “equal hearing” in a situation of domestic violence – wherein a woman is beaten up by a male who was abused by his father some time ago – because “he,” too, is a “victim?”

We call upon the world to act now against the dispossession of the Palestinians. We must end the daily humiliation at checkpoints, the disgrace of an Apartheid Wall that cuts people off from their land, livelihood, and history, and act against the torture, detention without trial, and targeted killings of those who dare to resist. Our humanity demands that we who recognize evil in its own time act against it even when it is “unsexy” to do so. Such recognition and action truly benefits our higher selves. We act in the face of oppression, dispossession, or occupation so that our own humanity may not be diminished by our silence when some part of the human family is being demeaned. If something lessens your worth as a human being, then it lessens mine as well. To act in your defense is really to act in defense of my “self” – whether my higher present self or my vulnerable future self.

Morality is about the capacity to be moved by interests beyond one’s own ethnic group, religious community, or nation. When one’s view of the world and dealings with others are entirely shaped by self-centredness – whether in the name of religion, survival, security, or ethnicity – then it is really only a matter of time before one also becomes a victim. While invoking ”real life” or realpolitik as values themselves, human beings mostly act in their own self–interest even as they seek to deploy a more ethically based logic in doing so. Thus, while it is oil or strategic advantage that you are after, you may invoke the principle of spreading democracy, or you may justify your exploitation of slavery with the comforting rationalization that the black victims of the system might have died of starvation if they had been left in Africa. Being truly human – a mensch – is something different. It is about the capacity to transcend narrow interests and to understand how a deepening of humanness is linked to the good of others. When apartness is elevated to dogma and ideology, when apartness is enforced through the law and its agencies, this is called Apartheid. When certain people are privileged simply because they are born in certain ethnic group and use these privileges to dispossess and discriminate others then this is called Apartheid. Regardless of how genuine the trauma that gave birth to it and regardless of the religious depth of the exclusivist beliefs underpinning it all, it is called Apartheid. How we respond to our own trauma and to the indifference or culpability of the world never justifies traumatizing others or an indifference to theirs. Apartness then not only becomes a foundation for ignorance of the other with whom one shares a common space. It also becomes a basis for denying the suffering and humiliation that the other undergoes.

We do not deny the trauma that the oppressors experienced at any stage in their individual or collective lives; we simply reject the notion that others should become victims as a result of it. We reject the manipulation of that suffering for expansionist political and territorial purposes. We resent having to pay the price of dispossession because an imperialist power requires a reliable ally in this part of the world.

As South Africans, speaking up about the life or death for the Palestinian people is also about salvaging our own dream of a moral society that will not be complicit in the suffering of other people. There are, of course, other instances of oppression, dispossession, and marginalization in the world. Yet, none of these are as immediately recognizable to us who lived under, survived, and overcame Apartheid. Indeed, for those of us who lived under South African Apartheid and fought for liberation from it and everything that it represented, Palestine reflects in many ways the unfinished business of our own struggle.

Thus I and numerous others who were involved in the struggle against Apartheid have come here and we have witnessed a place that in some ways reminds us of what we have suffered through. Archbishop Desmond Tutu is of course correct when he speaks about how witnessing the conditions of the Palestinians “reminded me so much of what happened to us black people in South Africa…. I say why are our memories so short? Have our Jewish sisters and brothers forgotten their humiliation?” But yet in more ways than one, here in your land, we are seeing something far more brutal, relentless and inhuman than what we have ever seen under Apartheid. In some ways, my brothers and sisters, I am embarrassed that you have to resort to using a word that was earlier on used specifically for our situation in order to draw attention to yours.

White South Africa did of course seek to control Blacks. However it never tried to deny Black people their very existences or to wish them away completely as we see here. We have not experienced military occupation without any rights for the occupied. We were spared the barbaric and diverse forms of collective punishment in the forms of house demolitions, the destruction of orchards belonging to relatives of suspected freedom fighters, or the physical transfer of these relatives themselves. South Africa’s apartheid courts never legitimized torture. White South Africans were never given a carte blanche to humiliate Black South Africans as the Settlers here seem to have. The craziest Apartheid zealots would never have dreamt of something as macabre as this Wall. The Apartheid police never used kids as shields in any of their operations. Nor did the apartheid army ever use gunships and bombs against largely civilian targets. In South Africa the Whites were a stable community and after centuries simply had to come to terms with Black people. (Even if it were only because of their economic dependence on Black people.) The Zionist idea of Israel as the place for the ingathering for all the Jews – old and new, converts, reverts and reborn is a deeply problematic one. In such a case there is no sense of compulsion to reach out to your neighbour. The idea seems to be to get rid of the old neighbours – ethnic cleansing – and to bring in new ones all the time.

We as South Africans resisting Apartheid understood the invaluable role of international solidarity in ending centuries of oppression. Today we have no choice but to make our contribution to the struggle of the Palestinians for freedom. We do so with the full awareness that your freedom will also contribute to the freedom of many Jews to be fully human in the same way that the end of Apartheid also signaled the liberation of White people in South Africa. At the height of our own liberation struggle, we never ceased to remind our people that our struggle for liberation is also for the liberation of white people. Apartheid diminished the humanity of White people in the same way that gender injustice diminishes the humanity of males. The humanity of the oppressor is reclaimed through liberation and Israel is no exception in this regard. At public rallies during the South African liberation struggle the public speaker of the occasion would often call out: “An injury to one?!” and the crowd would respond: “Is an injury to all!” We understood that in a rather limited way at that time. Perhaps we are destined to always understand this in a limited way. What we do know is that an injury to the Palestinian people is an injury to all. An injury inflicted on others invariably comes back to haunt the aggressors; it is not possible to tear at another’s skin and not to have one’s own humanity simultaneously diminished in the process. In the face of this monstrosity, the Apartheid Wall, we offer an alternative: Solidarity with the people of Palestine. We pledge our determination to walk with you in your struggle to overcome separation, to conquer injustice and to put end to greed, division and exploitation.

We have seen our yesterday’s oppressed – both in Apartheid South Africa and in Israel today – can become today’s oppressors. Thus we stand by you in your vision to create a society wherein everyone, regardless of their ethnicity, or religion shall be equal and live in freedom.

We continue to draw strength from the words of Nelson Mandela, the father of our nation and hero of the Palestinian people. In 1964 he was found guilty on charges of treason and faced the death penalty. He turned to the judges and said: “I have fought against white domination, and I have fought against black domination. I have cherished the ideal of a democratic and free society in which all persons live together in harmony and with equal opportunities. It is an ideal which I hope to live for and to achieve. But if needs be, it is an ideal for which I am prepared to die.” Farid Esack, 2009

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