La DIA è un organismo investigativo unico nel genere in Europa. Tutte le Forze dell’ordine ne fanno parte con lo scopo di contrastare specificatamente la criminalità organizzata di stampo mafioso. Per meglio definire l’azione di questa eccellenza investigativa, è necessario far parlare i numeri: dal 1992 al 31 dicembre 2018, sono stati sequestrati beni per oltre 17 miliardi di euro ed eseguite confische per quasi 10 miliardi di euro. Inoltre, sempre dal 1992 al 2011, sono state arrestate circa 9.400 persone sospettate di associazione mafiosa. L’azione della DIA si è ulteriormente intensificata durante l’emergenza della pandemia da Covid-19, e recentemente si è conclusa l’operazione “Basso profilo” contro la ‘ndrangheta con l’arresto di quasi 50 persone in tutta Italia, con il sequestro di 100 milioni di euro e l’individuazione di movimentazioni illecite per 300 milioni di euro. Il Direttore della DIA è Maurizio Vallone, precedentemente Questore di Reggio Calabria; nella sua carriera ha operato sul fronte sia della mafia siciliana sia della camorra, contro il clan dei Casalesi. Un dialogo per comprendere le nuove e ulteriori emergenze che devono essere affrontate nel contrasto alle mafie italiane e non solo.
La pandemia sta ponendo nuove e complesse sfide, a sua volta la criminalità organizzata si insinua, come sempre ha fatto, nelle pieghe dell’emergenza, quali sono le priorità che si trova a dover affrontare la Direzione Investigativa Antimafia?
La Direzione Investigativa Antimafia ha come mission il contrasto alla criminalità organizzata autoctona o di matrice estera. L’emergenza sanitaria legata alla pandemia da Covid-19 ci pone di fronte a tre grandi sfide: la prima, è rivolta al contrasto dei tentativi delle organizzazioni criminali di acquisire appalti pubblici legati al settore sanitario che, in tale contesto, rivestendo carattere di urgenza, rendono più difficile l’ordinario percorso di accertamenti preventivi e di controlli; la seconda, è legata alla necessità di acquisire strumenti ancora più efficaci di controllo che preservino la Pubblica amministrazione dal tentativo delle organizzazioni criminali di acquisire commesse ed appalti legati ai fondi europei messi a disposizione dall’Unione europea per risollevare le economie della zona Euro gravemente colpite dalla crisi economica scaturita dalla pandemia; la terza, quella che al momento desta maggiori preoccupazioni, è volta a garantire l’intero sistema economico nazionale, messo a rischio dalla concreta ed attuale possibilità che le risorse economiche a disposizione delle organizzazioni mafiose vengano utilizzate per acquisire aziende italiane, di grandi o medie dimensioni, che si trovano, oggi, in grave carenza di liquidità per la riduzione delle attività lavorative o le chiusure legate all’andamento degli indici pandemici. Inoltre, la DIA sta ponendo attenzione ad un fenomeno diffuso legato ai finanziamenti pubblici a privati ed imprese che lo Stato sta elargendo a titolo di ristori che, in alcuni casi, stiamo riscontrando essere stati acquisiti da soggetti legati alla criminalità organizzata che non avevano titolo ad ottenerli.
Troppe volte si è provato a fare una distinzione tra una sorta di vecchia mafia “con la coppola e lupara” e una nuova mafia formata da colletti bianchi; nella sua esperienza non si dovrebbe considerare la mafia sempre e comunque una mafia dei colletti bianchi che puntano alla penetrazione dell’economia legale con capitali illeciti?
L’interesse dei mafiosi è quello di accumulare ricchezza e potere. Se nel passato tale accumulazione avveniva con il potere intimidatorio della lupara e del prestigio criminale del mafioso, ormai da molti anni gli affiliati alle mafie hanno imparato a riciclare i proventi delle loro attività illecite in settori imprenditoriali ed in territori apparentemente lontani da quelli originari. Se un tempo il mafioso investiva quasi esclusivamente nella realizzazione di immobili o di aziende legate al territorio, ad esempio aziende agricole, oggi, o avvalendosi di intermediari o direttamente attraverso le competenze acquisite dalle nuove generazioni di mafiosi che hanno frequentato anche importanti corsi di studio nel Nord Italia o all’estero, è in grado di effettuare complicate transazioni finanziarie utilizzando i più moderni strumenti telematici ed ha accesso ai settori della finanza internazionale. Nonostante ciò, il mafioso non dismette mai “la coppola e la lupara”, li dissimula con efficacia ma, quando gli torna utile, li utilizza per intimorire o assoggettare chi non si dimostra funzionale al suo obiettivo.
La sua carriera la vede arrestare gli autori dell’omicidio di Libero Grassi, lavorare alle indagini che porteranno al processo “Spartacus” contro il clan dei Casalesi. Quali principali trasformazioni ha visto nelle mafie in questi ultimi decenni e quali i tratti che la preoccupano maggiormente?
Sono passati molti anni dalle stragi palermitane e calabresi, dalle bombe e dagli omicidi eccellenti; risulta chiaro a tutti noi, ed anche ai mafiosi, che la strategia stragista si è rivelata un pericolosissimo boomerang per le organizzazioni criminali. Anche i regolamenti di conti tra organizzazioni, o all’interno delle stesse organizzazioni, sono ormai tipici solo della criminalità disorganizzata, segno di gruppi non maturi dal punto di vista criminale e che hanno ben poco delle strutture mafiose più evolute. Queste bande criminali sono, per lo più, bande di trafficanti e spacciatori di stupefacenti che costituiscono solo il substrato criminale di alcune zone del territorio nazionale. Sopra a questi soggetti, invece, si muovono organizzazioni ben più strutturate, e trasversali rispetto alle consorterie criminali locali, che gestiscono il traffico internazionale di stupefacenti ed il riciclaggio degli ingenti profitti derivanti da tale traffico. Questi ultimi sono in grado di padroneggiare tecnologie e tecniche di business ed hanno accesso ai mercati finanziari dove operano come grandi investitori e finanziatori. Il timore maggiore – e la ragione per la quale la DIA dedica tempo e risorse nel settore dell’antiriciclaggio e dell’analisi delle segnalazioni di operazioni sospette – è che le organizzazioni mafiose, se non efficacemente contrastate, possano infiltrare a tal punto l’economia legale da non potersi più distinguere l’economia sana da quella criminale, con la conseguenza di non poter più recidere le parti malate senza deprimere anche l’intera economia nazionale.
La globalizzazione delle mafie è un dato di fatto, la loro capacità transnazionale è anche la loro forza. La DIA ha nelle sue competenze anche l’analisi e il contrasto alle mafie su questo piano; a che punto siamo per quanto riguarda sia la consapevolezza degli altri paesi del pericolo delle mafie e soprattutto qual è lo stato dell’arte della cooperazione tra i diversi organi investigativi, soprattutto in àmbito europeo?
Il 15 agosto del 2007, a Duisburg in Germania, alcuni esponenti di una cosca ’ndranghetista di San Luca (RC) effettuarono un attentato presso un bar della cittadina tedesca uccidendo esponenti della cosca rivale. Le indagini condotte in straordinaria sinergia tra la Polizia tedesca e quella italiana consentirono, in breve tempo, di far luce sugli autori della strage ed assicurarli tutti alla giustizia. Credo che quell’episodio costituisca uno spartiacque per la consapevolezza di molti paesi europei circa l’operatività nei loro territori della criminalità organizzata italiana. Da quegli anni la cooperazione di Polizia, e poi quella giudiziaria anche attraverso Eurojust ed altre Istituzioni Ue, ha fatto importantissimi passi avanti. Oggi, i rapporti internazionali sono regolati da molte normative che consentono gli attraversamenti di frontiera in caso di inseguimento, la creazione di SIC – Squadre Investigative Comuni tra differenti Forze di Polizia, i mandati di cattura internazionali ed altri istituti che hanno facilitato le attività investigative multilaterali. La DIA, in base ad un progetto finanziato dalla Ue, è capofila del progetto ONNET, una rete di comunicazione tra 28 paesi europei ed extraeuropei, denominata @ON, che consente immediati scambi di informazione operativi finalizzati al finanziamento di missioni investigative nei paesi membri. Il progetto è in continua espansione ed ha consentito, sino ad oggi, di supportare le Unità investigative degli Stati Membri della Rete @ON in 39 investigazioni, ed ha finanziato 131 missioni operative in favore di più di 567 investigatori che hanno portato all’arresto di 222 persone, inclusi 3 latitanti, oltre al sequestro di circa 2.5 milioni di euro, di droga (tra cui 21 piantagioni di canapa) ed armi. Analogo impegno la DIA sta esprimendo nell’ambito del progetto ICAN per il contrasto della ’ndrangheta sul piano planetario, con il coordinamento dell’Interpol e su iniziativa della Direzione Centrale della Polizia Criminale. Il progetto si propone di far crescere la consapevolezza – in tutti i paesi dove la ’Ndrangheta opera – della pericolosità e pervasività di tale organizzazione mafiosa creando in ogni nazione, membro del progetto Unità specializzate al contrasto della ‘ndrangheta che siano in grado di convogliare tutte le attività investigative nei confronti di questa organizzazione criminale e fungere da punto di contatto per le investigazioni estere.
Prima di diventare direttore della DIA è stato questore di Reggio Calabria: una sua riflessione sulla capacità criminale della ’Ndrangheta? Ed inoltre quali tra le mafie straniere presenti in Italia avverte come più pericolosa e penetrante nel nostro territorio?
Oggi la ‘ndrangheta, seppure leader nel traffico internazionale di stupefacenti con un ruolo che è da definire nei confronti dei grandi brooker internazionali operanti in tale settore, non appare più così monolitica ed impermeabile a fenomeni quali la collaborazione con la giustizia di affiliati e di imprenditori e commercianti, sino a ieri costretti all’omertà dal timore che tale organizzazione mafiosa imponeva loro. Un numero sempre maggiore di collaborazioni con la giustizia di soggetti appena tratti in arresto per vari reati sta frantumando quel clima di omertà e di impenetrabilità che aveva contraddistinto questa organizzazione mafiosa, realtà sempre più percepita dei cittadini che, in numero ormai significativo, stanno decidendo di collaborare alle indagini testimoniando il loro assoggettamento alle estorsioni mafiose. Ciò anche a seguito della determinazione con cui i Prefetti, e l’intero Comitato per l’Ordine e la Sicurezza Pubblica, stanno valutando positivamente tali dichiarazioni sottoponendo a efficace protezione i testimoni consentendo loro di continuare ad operare nella propria attività imprenditoriale nella stessa provincia di elezione senza dover essere trasferiti in località protette. Ciò mina alla base il prestigio delle ndrine e dei suoi affiliati e costituisce un importantissimo punto di svolta nella lotta a tale organizzazione criminale.
Costituita da organizzazioni eterogenee per origini, caratteristiche strutturali e modalità operative, la criminalità etnica rappresenta, invece, nel complesso panorama nazionale, una componente rilevante e in continua ascesa. Sono ormai numerosi i pronunciamenti giudiziari che hanno riconosciuto nella struttura e nell’operatività criminale dei sodalizi stranieri le connotazioni tipiche dell’organizzazione e dell’agire mafioso. In tal senso, la Corte di Cassazione si è da tempo espressa nei confronti di strutture cinesi, dei cults nigeriani nonché, più di recente, anche con riguardo ad una compagine di matrice romena al termine di un articolato percorso giurisprudenziale. Il core business dei gruppi stranieri in Italia è incentrato sul traffico di droga ma è significativo per dimensioni e pericolosità anche il favoreggiamento dell’immigrazione clandestina, finalizzato all’avvio di donne alla prostituzione, alla destinazione di soggetti di ambo i sessi al lavoro nero e all’accattonaggio forzoso. I sodalizi di matrice etnica si dedicano anche al traffico di armi e di merce contraffatta nonché ai reati contro il patrimonio. Ormai presenti in quasi tutte le regioni, i gruppi criminali stranieri stanziali interagiscono con i sodalizi italiani in maniera diversa a seconda del territorio. Al Centro-Nord la criminalità etnica si muove in modo indipendente, divenendo talvolta egemone in ambiti territoriali più o meno estesi, ovvero realizza accordi funzionali con la delinquenza nazionale con la quale opera su un piano paritetico o come intermediario nella fornitura di merci e servizi. Nelle regioni del Sud le consorterie etniche operano in via subordinata ovvero con l’assenso della mafia locale, talvolta attraverso la dazione di un quantum. Ciò non esclude, ovviamente, come anche le matrici mafiose tradizionali accettino di operare su un piano paritetico nei “rapporti d’affari” intrattenuti con organizzazioni straniere nell’ambito dei traffici transnazionali fortemente sviluppati, soprattutto in materia di armi e di stupefacenti. Nel narcotraffico sono innanzitutto le organizzazioni albanesi a qualificarsi quali attori particolarmente affidabili ed ormai pienamente affermati sullo scenario internazionale. Ciò anche poiché sono in grado di movimentare ingenti quantità di cocaina e eroina attraverso la cooperazione di connazionali presenti in madre-patria, nel Centro-America e in altri paesi europei, specie nei Paesi Bassi, ponendosi spesso in affari, nella veste di affidabili intermediari, con la mafia calabrese, campana e siciliana o con altre matrici criminali. Risultano, inoltre, coinvolte nella gestione e nella spedizione, via mare, di imponenti carichi di marijuana, di cui l’Albania è Paese produttore, spesso in accordo con la criminalità pugliese. In tali ambiti criminali rivestono un ruolo di rilievo, per il particolare spessore criminale che li contraddistingue, i cults nigeriani, spesso tra loro contrapposti, ma accomunati da un modus operandi comune, riconducibile ai riti wodoo e ju-ju, utilizzati dai gruppi per la coercizione, psicologica e fisica, dei sodali e delle giovani donne reclutate in Nigeria e nei paesi limitrofi, queste ultime forzate alla prostituzione in Italia. Diverse inchieste giudiziarie rivelano come le rotte della tratta di esseri umani prevedano tappe ben definite, spesso coincidenti con quelle del commercio illegale di armi, stupefacenti e tabacco, prima, nelle “connection houses” in Libia e, successivamente, nei centri di accoglienza in Italia.