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MafiaAfrica: Il Velino

Recensione di Paolo Fantauzzi per Il Velino

La mafia africana, outsourcing dei clan tra voodoo e coca
La strage di Castelvolturno, costata nel 2008 la vita a sei nigeriani incensurati che si trovavano casualmente fuori da una sala giochi, ha avuto l’effetto di svelare agli occhi dell’opinione pubblica l’esistenza di una delle sacche di sfruttamento più profonde d’Italia. Una zona, compresa fra il litorale domitio e l’agro-aversano, in cui migliaia di immigrati africani impiegati nei campi vivono in condizioni disumane. Ma anche l’area in cui col tempo si è radicata una mafia “nera” che prospera in sinergia con la camorra. A raccontarne l’ascesa, i legami, le protezioni e gli orrori è Sergio Nazzaro, autore di “MafiAfrica” (Editori riuniti), in libreria dalla prossima settimana. “Mentre i casalesi hanno combattuto le loro guerre con gli altri clan vicini per difendere e imporre la sede operativa, gli africani non ne hanno avuto bisogno – scrive l’autore nel prologo -. Decenni di permanenza. Inesorabile. Protetta. Utile. A testa bassa hanno subito colpi, lamentele, repulisti generali, promesse di miglioramento e promesse di esodi biblici. Hanno accettato tutto, in silenzio. E sono rimasti”. Perché quella dell’inimicizia tra i cartelli locali e quelli nigeriani è una vulgata che non trova (quasi mai) riscontro nella realtà, dove anzi opera una divisione del lavoro ben chiara, basata sull’outsorcing.

Scritto con lo stile di un romanzo ma basato sulle inchieste giudiziarie (il magistrato Giovanni Conzo, autore delle principali indagini, firma la postfazione), il libro si basa sugli atti della Direzione distrettuale antimafia di Napoli e il lavoro dei carabinieri del Ros che hanno curato la parte investigativa, a dimostrazione della rilevanza del fenomeno. “Molto pragmaticamente, i cartelli locali hanno capito che era più conveniente lasciare ai ‘neri’ le attività di strada come lo spaccio e la prostituzione, che richiamano in misura maggiore l’attenzione delle forze dell’ordine, per concentrarsi esclusivamente sugli affari più complessi, come il traffico di armi e gli appalti pubblici”, spiega Nazzaro al VELINO. Quella nigeriana è infatti una criminalità sottotraccia, che sa mantenere un basso profilo come quella cinese, che riconosce i ruoli e sa di essere “ospite” in territorio altrui, tanto da pagare il pizzo e le tangenti per operare. Ma che, al contrario dei cartelli cinesi o russi, non era organizzata a livello delinquenziale già prima dell’arrivo in Italia. Per questo è composta da ex vittime divenute carnefici, che oggi si accaniscono contro i loro stessi connazionali. Da raccoglitori di pomodori a boss dello spaccio e della tratta, che non cercano affermazione personale o potere, ma puntano solo a fare soldi. Un tallone di ferro che schiaccia chi prova a ribellarsi, spesso senza neppure il bisogno di arrivare alle misure coercitive. Bastano i riti woodoo e le minacce di ritorsioni sui familiari in patria per convincere quanti vorrebbero uscire dal giro a non collaborare con la giustizia.

“Come la ‘ndrangheta, la mafia africana han accesso diretto alle fonti di approvvigionamento della coca – aggiunge Nazzaro -. La droga proveniente dal Sud America si ferma in West Africa, dove viene stoccata prima di ripartire alla volta dell’Europa. E visto che solo in Nigeria parliamo di 150 milioni di persone, almeno finché a quest’immigrazione non verrà data dignità, potenzialmente ci saranno corrieri della droga a pioggia per i secoli a venire”. “Abbiamo perso la guerra da molto tempo. Il punto di non ritorno è stato superato. Ormai possiamo giusto vincere qualche battaglia”, confessa con disarmante sincerità un capitano dell’Arma. Ma quella raccontata da Nazzaro è una discesa negli inferi in cui non mancano neppure gli orrori. Oltre ai semplici riti woodoo per condizionare psicologicamente le vittime di tratta c’è infatti anche lo spettro dei sacrifici umani. Nel 2001 nel Tamigi fu ritrovato il tronco di un bambino di età compresa fra tre e sette anni, senza testa, braccia né gambe. Un sacrificio umano per propiziarsi buona sorte, fu appurato in seguito. Proprio come accadde tre anni dopo a Kilkenny, in Irlanda, con una donna del Malawi. Da qui la domanda, quanto mai inquietante: “Possiamo davvero essere certi la stessa cosa non sia accaduta anche in Italia, fra Castelvolturno e dintorni?”

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