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Raccogliere il mare con un cucchiaino

di Regina Catrambone postfazione di Sergio Nazzaro

Di fronte all’appello disperato di milioni di bambini, donne e uomini migranti che chiedono aiuto e solidarietà, la nostra risposta non può essere voltare lo sguardo dall’altra parte. È questa la ragione per cui Regina Egle e suo marito Christopher hanno fondato l’organizzazione umanitaria internazionale MOAS: per non abbandonare i migranti del Mediterraneo e per fornire aiuto e assistenza alle comunità più vulnerabili del mondo. Questo libro non è dunque un saggio per esperti di geopolitica, ma la raccolta delle emozioni e delle storie che l’autrice ha scelto di trascrivere, a partire dalla sua esperienza, con l’obiettivo di parlare a chi ha chiuso i propri occhi e il proprio cuore di fronte ai problemi derivati dalla cattiva gestione del fenomeno migratorio.

UN GRIDO COPRIVA LE DISTANZE

di Sergio Nazzaro

Partire, restare.

Tutti noi conserviamo un ricordo, indelebile, il primo tuffo in mare, nell’acqua alta. Guardati a vista, con la paura dell’ignoto. Salvagente o cassetta di polistirolo a portata di mano, dipende da quanto è datato il ricordo. Rito d’iniziazione, la scoperta che i piedi non sempre toccano terra.

“Dammi la mano”, in mare è una richiesta a cui non si può voltare le spalle. Aggrappati ad un genitore, ad un amico, rituale che si ripete ogni volta che arriva la bella stagione del mare. È un istinto, un’azione consueta, allungare le braccia e sentire la presa che ci rassicura, anche se l’acqua è bassa.

Quando è successo che abbiamo imparato a voltare le spalle? Lo facciamo già ogni giorno, sulle strade, distogliamo lo sguardo da chi dorme a terra, in qualsiasi stagione. Possiamo anche farlo, non affogherà nel cemento o l’asfalto delle strade. In mare si muore, invece. E abbiamo cominciato a volgere lo sguardo, abbiamo cominciato ad incolpare il migrante. La vita ha due poli che non sono opposti, due diritti inalienabili: partire e restare. Cosa difendiamo quando a spada tratta incolpiamo i migranti? La loro povertà, ormai colpa e condizione, ci spaventa a tal punto che distogliere lo sguardo non è più sufficiente.

Bisogna esorcizzare la paura, incolpare, fermare l’invasione che ci ricorda la povertà della nostra condizione sociale. Povertà morale piuttosto che di oggettistica con cui riempiamo il quotidiano.

Cullati e inculcati dall’idea che la vita sia la costruzione di un muro intorno ad un terreno su cui, chissà, avremo la fortuna di costruire casa e quando tutto è finito, porre il fatidico cartello: attenti al cane.

Chiudersi, mentre ordiamo merci colorate che invece devono avere il diritto di attraversare confini e hanno l’obbligo di farlo anche con puntualità.

La chiave di volta è l’empatia. Nelle pagine di regina finalmente si dà la giusta preminenza, definizione, umanità a questa parola che è carne e sangue. L’empatia è una scelta, scomoda, ma che tutti noi poi invochiamo quando siamo dall’altra parte della frontiera del dolore, del disagio, dalla parte di coloro che

chiedono aiuto e nessuno risponde. Tutti vogliamo attenzione e aiuto, ma fintanto che non accade, respingiamo. Allontaniamo da noi il diverso, su cui ricadono tutte le colpe. E siamo obbligati al macerare delle parole di odio e razziste.

Empatia, che non risolve tutti i problemi, forse neanche uno, ma che ci pone nella pelle di chi soffre, che sconfigge un primo e mortale nemico, la solitudine che vive chi soffre. Quanta ovvietà, il dolore è solitario, e la speranza negata è quella di avere qualcuno vicino che prova a farci respirare oltre il dolore e farci immaginare che ci sia ancora la possibilità di un altro giorno che deve venire.

Abbiamo imparato a nuotare nell’indifferenza, a chiuderci in casa e girare più volte la serratura. Abbiamo imparato a sentirci al sicuro nei debiti che creiamo per assicurarci una vaga illusione di vita che si rincorre di bolletta in bolletta. E non si può accettare che qualcuno ci ricordi che la vita è altro, che si può rischiarla viaggiando per mare, perché la vita è vivere e non sopravvivere. Forse detestiamo i migranti perché ci ricordano la vita e non abbiamo più voglia di scuoterci, di avere empatia, di sentire e vivere la carne viva dei sogni e perché no delle illusioni.

Ci ricordano a noi i migranti che siamo tutti in cammino. E molti lo hanno dimenticato. Molti si sono fermati alla prima curva. 

Criminalizzare la povertà, criminalizzare il povero, i migranti e tutti coloro che li aiutano, in fin dei conti criminalizzare tutti coloro che non si sono mai arresi alla visione povera di una vita fatta di sopraffazione, in cui il motto del più forte prevale non ha mai avuto alcun senso. Criminalizzare poveramente anche nel linguaggio coloro che si fermano per aiutare, piuttosto che continuare a correre. Criminalizzare coloro che scelgono l’empatia e la gentilezza quali unici strumenti per costruire. Criminalizzare, mentre tramano alla luce del sole accordi che grondano tortura e violenza.

“Non si fitta agli italiani”. Mio padre, dopo tutta una vita, ricordava come se fosse accaduto il giorno prima, la vista del cartello fuori molte case nella Svizzera degli anni ’60. Il migrante italiano, non era benvenuto. La visita medica, sorta di ispezione sanitaria al confine Italia Svizzera. E cosa mai stavi facendo se non cercare di campare, di poter avere il cibo in tavola, mettere su famiglia e dare da mangiare anche a loro. Quale la grande colpa di essere trattati come diversi. Ma abbiamo la memoria corta, sempre. Il dolore, la sofferenza patita va cancellata quanto prima. E siamo punto e daccapo, cancelliamo chiunque ci ricordi le nostre contraddizioni, le nostre debolezze, la nostra solitudine come esseri umani che non riescono a credere più di poter creare comunità altre, diverse, inclusive. Siamo spaventati, già. E poi un giorno moriremo forse puntando ancora un dito contro qualcuno, e quando la bara si chiuderà, quel dito si spezzerà rivolgendosi verso di noi.

Partire, restare. Chi resta, osserva nello scorrere degli anni le stratificazioni delle migrazioni. E quello di prima è sempre meglio di quello che viene dopo. Le lamentele per quello di prima vengono rivolte a quello nuovo, a cui si aggiunge quello che è venuto poco prima. Anche questa è la via dell’integrazione. Si è partecipi delle lamentele, perché fa comunità. E prima c’erano i marocchini con i parei da spiaggia e le noccioline, che hanno lasciato posto agli algerini, poi anche i tunisini, ma in fin dei conti erano tutti uguali e gentili. Non come quelli che sono venuti dopo, i polacchi, quando cade il muro. Non si capisce nulla di quello che dicono, che lingua strana, una lingua che non è dolce musicale. Con i marocchini ci capiamo meglio, ci siamo sempre capiti meglio. A gesti ovviamente, e poi sono come noi, vengono dal mare, o comunque dalla costa. Poi lentamente i tunisini sono tornati a casa, i marocchini hanno cominciato a parlare in dialetto stretto che quando affermavano che erano stranieri non ci volevi neanche credere, ti stava prendendo in giro. E nel frattempo erano arrivati gli albanesi. Meglio i polacchi, più gentili, non come quelli, quelli là, sono sempre quelli là il problema. Gli albanesi, che come tutti i precedenti erano sempre brutti, sporchi e cattivi. Ed con lo scorrere del tempo, anche loro come i marocchini hanno cominciato a parlare in dialetto, e nessuno ci credeva che erano stranieri, anzi erano e sono i più affidabili se devi fare un lavoro. Non come quelli là, e non si sapeva più chi erano quelli là, ma se avevi bisogno di una mano a casa, gli albanesi erano i migliori a risolvere tutti i problemi. E si stava sotto al bar tra gli ultimi marocchini, tunisini, i nuovi albanesi e polacchi a capire chi fossero i nuovi venuti, gli ucraini. No, i polacchi vanno bene ma gli ucraini proprio no. Ma non la pensavano cosi gli anziani e le anziane del paese. Se non ci sono gli ucraini chi bada alla nonna? Ma quella non sa parlare neanche una parola di italiano. Ma la cura come linguaggio universale, lavare, spogliare, pulire, avere cura e fare compagnia come linguaggio universale.

Non certo come quelli là, che veramente si cominciava a non capirci più niente, perché l’italiano non è mai stato importante nei paesi, e si va di dialetto, stretto, e tutti lo parlavano bene, molto bene. A stare con gli anziani diventavano tutti filologi di atavica tradizione. E vai a districare non chi avesse ragione, ma chi era chi e da quale paese proveniva. Certo, nel mezzo sfruttamenti e lotte, accuse reciproche e bestemmie, ognuno però nella lingua natia fino a che non si era imparata anche la bestemmia dialettale che scappava al nonno qualche volte e se ne carpivano i segreti. Poi sono arrivati anche i georgiani, i bielorussi che non andavano bene, meglio tutti quelli di prima. E poi sono arrivati, ma da tempo i neri, dalla Nigeria, dal Ghana, e non andavano bene, o per meglio dire erano troppi e poi sempre meglio quelli che con la pelle bianca che quella nera. E poi alla fine, abbandonati da tutti, ci si arrangiava come meglio si poteva. Chi non si lamenta del vicino appena arrivato. Ed infine, ma la storia non è ancora chiusa, sono arrivati i bulgari, etnia rom, e quelli proprio non vanno bene. Anche loro sono brutti, sporchi e cattivi. Ma semplicemente perché sono gli ultimi che possono essere sfruttati da tutti. Nel palazzo si si sente al sicuro, non ci sono i bulgari, commentano un tunisino, un rumeno e un ucraino con gli italiani presenti, mentre discutono in assemblea di condominio. E durante la rivolta del covid contro i bulgari al paese, siedo al bar. 

Gianni è dell’Iran. Sì Gianni, perché il mio nome è complicato, quindi meglio Gianni che tanti si chiamano così e si impara più facile. Gianni ha il negozio proprio sotto i palazzi della rivolta. I bulgari sono gentilissimi e pagano sempre, non fanno mai storie. Gli italiani, invece, qualche volta chiedono lo sconto con troppa insistenza. Io sono venuto qui perché mio fratello ci sta da tanti anni, qui mi piace, abbiamo sposato due sorelle del paese. Si viviamo qua da anni. E la storia continuerà, fintanto che ci sarà qualcun altro di cui lamentarsi. Qualcun altro a cui dare la colpa. Nello stesso bar, i figli migranti parlano con tribolata amarezza del nord, di come certe volte non si sopportano proprio quelli che stanno su, anche se tutto funziona, anche se sopra il lavoro ci sta, ma le feste si passano giù, dove si sta bene, per poi lamentarsi dopo qualche giorno che non funziona nulla. Che giù è brutto, sporco e cattivo. E che non vedo l’ora di ripartire per poi andare lì dove posso lamentarmi e forse passo la vita a lamentarmi per cercare di sopravvivere a me stesso.

Partire, restare. Numeri, verità. Nel dibattito del partire restare, si scontrano continuamente numeri e verità, disvelate o presunte occulte. Si possono mettere in campo tutti i numeri, tutte le statistiche, eppure ognuno le userà

come vuole, perché non interessa l’umano, ma avere ragione. Non interessano queste pagine, intrise di una semplice verità, non poter rimanere indifferenti davanti alle sofferenze. Chi ha paura, troverà sempre una reazione violenta per rigettare coloro che nell’immaginario della paura sono venuti ad invaderci.

La narrazione delle Ong che salvano in mare è ormai costellata di sottomarini che effettuano intercettazioni, di forze dell’ordine che effettuano operazioni sottocopertura alla ricerca di prove di collusioni. Eppure la semplice verità è che gli accordi tra Stati non li fanno i soccorritori, che in Libia coloro che dovrebbero essere preposti alla salvaguardia delle vite umane sono i principali trafficanti di esseri umani. La colpa è sempre di un altro, di un debole. Nella narrazione generale non può avere diritto di cittadinanza la possibilità che si salvi qualcuno perché lo si vuole semplicemente salvare da morte certa.

Accade anche sulla terraferma, a Trieste, quando due anziani hanno deciso di curare i piedi dei migranti, senza nulla chiedere a nessuno. LA loro piazza, ribattezzata piazza del mondo, ad un certo punto è stata circondata dalle forze dell’ordine.

LA verità così lampante, circondare, piuttosto che tendere una mano. Come se qualcuno che cammina, che attraversa il mare, con solo i panni che veste addosso potesse essere una minaccia. Certo che è una minaccia, al nostro modo di vedere e intendere la vita, l’umanità stessa. Sono una minaccia alle nostre convinzioni. Sono spaventati e ci spaventano, sono poveri e ci spaventano, sono in pericolo e ci spaventano, sono affamati, intimoriti, laceri e comunque continuano a sognare e sperare e per questo si spaventano.

E nel Mediterraneo mentre ogni giorno le acque sono solcate da cariche di droga, di petrolio di contrabbando, di trafficanti di esseri umani, di merci più o meno lecite, l’illegale è l’umano che soffre, l’umano che salva. Le pagine di Regina sono pagine di dubbi, di interrogativi, di decisioni, ecco la verità dietro la scelta complessa di mettere in mare una nave. Nessun romanzo di accordi segreti con potenze straniere destinate a destabilizzare governi stranieri. Già, non c’è nulla di tutto quanto la narrativa generale vorrebbe, c’è solo l’interrogativo umano del “come posso aiutare?”.

Nel frattempo i giorni reali, quelli che abbiamo in mano, quelli sono che hanno valore, scorrono veloci. I ragazzi giocano a pallone, non si domandano mai chi viene e da dove, si inseguono dietro un pallone. Immagine retorica, immagine vera. Li vedi in ogni angolo del nostro Paese Italia, che parlano i dialetti del luogo, e ci si stupisce sempre che quella faccia, quei lineamenti, quel colore della pelle si esprime con un dialetto a noi conosciuto.

Ci stupisce che un altro da noi sia simile a noi. Sui treni, sugli autobus, la nostra stessa lingua ci stupisce perché parlata da un altro che non dovrebbe parlarla, conoscerla, usarla come se fosse di casa. Ci stupiscono che la lor attenzione sia sempre prima a cedere il posto su un mezzo pubblico, mentre noi siamo riflessi in uno schermo alla ricerca di un’identità che trovata di rimanda all’immagine scarna del nostro essere così diffidenti.

Empatia, questa la chiave di volta, e Regina traccia la linea in maniera netta. Numeri, statistiche, ragioni e false notizie, verità e complotti.

Scegliamo l’empatia o meno? Tutto qua, semplicemente. Non è neanche una scelta di umanità, è una scelta personale che tocca solo a noi, non ci tocca il portafoglio, la promozione al lavoro, non tocca le nostre proprietà. Colpisce un sentire profondo che ti farà vivere scomodo per il resto della vita, se la scelta è permanente, come è, perché una volta scelta l’empatia, rimane attaccata sulla pelle. E l’empatia non è solo dolore, è anche la felicità dopo il dolore. Ma ci vuole il coraggio della speranza per raggiungere quel punto, credere che ne abbiamo a sufficienza di empatia per noi stessi e per gli altri, richiede ottimismo, visione, animo e coraggio direbbero gli anziani che diffidenti sono sempre ma raramente razzisti, perché hanno sudato nelle campagne e nelle fabbriche. Empatia, restare o partire. Empatia, sentire l’altro, o voltare le spalle e pretendere che la vita va bene lo stesso.

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