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Sole 24 Ore: Agro Cemento

si negri di merda che cosa fanno nel nostro Paese
la camorra a fatto bene che anno ucciso sei africane.
viva la camorra Forza Napoli Forza il sud

Qual è il punto da cui cominciare? Forse lì dove si appoggia la punta del compasso, e si traccia un cerchio di oltre 50 chilometri di diametro. La punta è sulla città di Napoli, il resto è un territorio di cui poco si conosce, perché il territorio stesso non ha più memoria storica di che cosa è, perché di cosa poteva essere, beh, si era immaginato di tutto: anche che fossero le rovine di Atlantide o il nuovo centro del turismo mondiale. Alla fine è solo l’Agro Cemento, quella terra contadina invasa da cemento, fusti di rifiuti che unisce con i suoi tondini di ferro le province di Napoli e Caserta. Oppure possiamo cominciare da Michele Landa, metronotte sparato e bruciato a Pescopagano, vicino a Mondragone, provincia di Caserta.

Un mese prima di andare in pensione, una rapina o l’aver visto qualcosa che non doveva, lo condanno a morte. I figli si porteranno i resti del padre a casa, in una scatola di scarpe. L’ultima busta paga che riceve la famiglia si ferma alle quattro del mattino, perché è l’ultima volta che una pattuglia di colleghi vigilantes vede vivo Michele Landa. Oppure potremmo cominciare dal braccio strappato di Fortunato Montella che muore perché si oppone alla rapina della sua macchina alla rotonda di Casavatore, provincia di Napoli. Fortunato è tamponato, scende per controllare i danni. I rapinatori entrano in azione. Ma l’anziano pensionato si oppone. Ha combattuto con tutte le sue forze anche il cancro della moglie. È vedovo, poche ore prima è stato con gli amici a Melito, a riprendersi una vita, a combatterla ancora. Sorridere, perché la vita non è solo sofferenza. I rapinatori partono in quarta, lui si aggrappa, gli strappano un braccio e poi lo travolgono con la sua stessa macchina. Non un osso sarà trovato intatto. Possiamo cominciare da queste morti, dal silenzio che hanno ricevuto. Oppure possiamo cominciare dalle raccolte di firme contro la camorra che, tanto puliscono l’anima e la coscienza e tanto dimenticano gli anziani vittime di una violenza assoluta. Già, perché i morti solitamente sono anziani, a dimostrazione di come sia forte la criminalità al Sud. Simboli si diceva, come Federico Del Prete, sindacalista ucciso a Casale di Principe, provincia di Caserta, e dimenticato. Solo pochi giornalisti seri lo hanno sempre ricordato come Raffaele Sardo e Vito Faenza. E mentre in Italia i sindacati sfilano ad ogni buona occasione, il giorno del funerale del sindacalista degli ambulanti, di coloro che vendono abiti al mercato, beh, non c’era nessuno. Nessuna bandiera di nessun colore. Solo un cielo grigio. E Romina Del Gaudio? Perché muoiono gli anziani e i giovani. Una ragazza solare, ventenne, violentata e ammazzata a San Tammaro provincia di Caserta. Solo la trasmissione Chi l’ha Visto tiene desta l’attenzione su questa morte. Oppure potremmo cominciare dalla morte di Giovanna Curcio. Una ragazza di soli quindici anni che muore bruciata nella fabbrica di materassi, a Montesano della Marcellana, provincia di Salerno. Lavorava a nero, per 15 euri al giorno. La morte al Sud non deve essere solo raccontata, ma immaginata. Noi dobbiamo immaginarla che siamo sopravvissuti ai nostri quindici anni. Immaginiamo la carne che scotta, che comincia a bruciare, i polmoni che scoppiano per il fumo acre che ottura le vie respiratorie. E nessuno si scandalizza, raccoglie firme, solidarizza. Nessuno. Strana la terra del Sud, la terra dove i contadini erano soliti alzare la testa, anche per osservare la crescita di una piantina di pomodori. Oggi no, nessuno o quasi alza la testa. Strana la terra dell’Agro Cemento, i cui emigranti quando li incontri ti raccontano tutti i dettagli del dopoguerra, di anni lontanissimi. Ricordano ogni dettaglio di una vita ormai lontana e dimenticata. Siamo una terra con la memoria di ferro. Come la memoria della fame. Poi, si diventa tutti smemorati in una caserma dei carabinieri. Non si ricorda più nulla. Dopo Napoli, si sono scoperti i Casalesi. Eppure da decenni se ne scriveva e da decenni i giudici indagavano. Forse non erano ancora troppo glamour. Nel frattempo ci si è dimenticati della Domiziana, quella lingua di asfalto che parte dal confine, dal fiume Garigliano e arriva fino a Pozzuoli. Dalle nebbie di quel fiume Garigliano, non si è mai visto bene cosa accadeva oltre. Da una parte la civiltà, dall’altra il nulla. Come sul confine Stati Uniti Messico, con le sue innumerevoli Ciudad Juárez: cittadine dove il lavoro è sinonimo di sfruttamento, dove la parola contratto è riservata solo ai dipendenti pubblici, dove la morte coglie i deboli all’improvviso. Terra di fosse comuni, come nell’ex Jugoslavia. Ma noi non ci separiamo. Basta l’essere dimenticati. E dal profondo senso di orfananza che attanaglia i viventi lungo la strada Domiziana, la sorpresa per la meraviglia dell’eccidio di Castevolturno. Già era successo a Pescopagano, anni ’90, una strage di neri. Oggi, semplicemente accade di nuovo. Romano Montesarchio è un documentarista che filma la Domitiana pochi giorni prima dell’eccidio. Sotto gli occhi di tutti, si è implementato il terzo mondo. Si sviluppa sui cinquanta chilometri di asfalto della Domiziana. Nessuno si indigna. Il documentario “la Domitiana” è rifiutato in un grande festival italiano. Non è glamour, o forse semplicemente troppo reale. Poi nessuno sa mai, conosce mai, nessuno sa. Ma come si può fare sapere agli italiani che c’è il Sud, se un manipolo di persone decide il come e il quando un problema deve diventare di attenzione nazionale? Ma la nostra storia ha anche altri punti di partenza, dalla dignità dei figli di Michele Landa e Fortunato Montella. Angela Landa racconta con voce ferma, guardando il dolore in faccia della scomparsa del padre con una richiesta ferma e decisa di giustizia. Così Federico Montella che, superato lo stupore del silenzio che circonda la morte orribile del padre, chiede giustizia con forza e decisione. Sono lontani dagli schemi delle lacrime gridate davanti ad una telecamera, dai dialetti urlati incomprensibili. I figli delle vittime hanno dignità. E vibra nei toni commossi delle loro storie. E si potrebbe continuare con il Giardino della Memoria, un pescheto nato su terreni confiscati vicino alla centrale nucleare del Garigliano. Simmaco Perillo indica gli alberi, ognuno ha la targa con il nome di una vittima, e sussurra sempre: “Sono troppi”. Ma erano nel posto giusto al momento giusto. Perché la terra è la nostra, non dell’uomo con la pistola. E il capitolo successivo della terra che non ha memoria può essere la voce di Ciro, poliziotto a Castevolturno. “Perché devo dire io che non servono i militari? Perché i giornalisti vogliono che siamo noi a raccontare realtà così palesi che dovrebbero raccontare loro? I commissariati di zona non hanno uomini, macchine e i giubbotti antiproiettile sono vecchi. Nessuno lo scrive, così mandano altri colleghi che poi se ne vanno e noi siamo sempre al punto d’inizio”. Ciro si alza e ogni giorno va a lavorare. Dopo la strage di Castelvolturno, parla ancora meno. Anzi non dice più nulla. Loro sono sempre pochi e tali rimarranno. E quindi la nostra storia potrebbe cominciare dal ribadire l’ovvio. Non creare arguti e intricati schemi di presunte manovre dietro ogni strage. Si muore al Sud, perché la vita non vale nulla: si sputa sulla dignità umana ogni santo giorno, con i proiettili e con lo sfruttamento. Si mette sotto terra la volontà di reazione, di riscatto, come i fusti di immondizia che diventano stalattiti di dolore nel cuore. Ma nessuno ha più voglia di spezzarle.- Pochi gli eroi al Sud, e poi sempre messi all’indice. Eroi quotidiani che, però, non sono buoni per essere la prima notizia del telegiornale. Riuscire a fare del succo di pesca vero, da un pescheto, nato su un terreno confiscato, non fa audience. Terra che non ha memoria di sé. Terra che non riesce a sognare, a guardare al futuro con un battito di ciglia che non sia accompagnato da un sospiro di fatica. Animali da zoo, osservati dietro i vetri delle telecamere che inquadrano sempre il motorino che impenna e la donna sguaiata che impreca. Poi tutti a casa, al caldo, al riparo da ciò che si è visto. Per un attimo sospendiamo il racconto e proviamo ad immaginare: non c’è più la camorra. E in che Stato ci risvegliamo? Quello dei contratti a progetto? Della maternità negata? Dell’affanno continuo per l’acquisto di una casa? Già, per un attimo immaginiamo il futuro. E dove ci risveglieremmo? Nella terra dei buoni propositi. La terra in cui parola come responsabilità è stata abolita. Ho un problema lo risolvo. Al Sud, ho un problema me lo tengo. Ma è anche la terra dove lavora l’ex generale dei carabinieri Roberto Jucci, che sta risanando il fiume più inquinato d’Europa: il Sarno. Non prende stipendio, non spreca, ora tutto funziona, anzi i depuratori guadagnano: lo vogliono licenziare. Al Sud il sole ha freddo. E la nostra storia finisce con le parole sgrammaticate dell’inizio. Un commento lasciato ad un video sulla rivolta dei neri di Castevolturno, il giorno dopo la strage: non mi fanno ridere quelle parole, non è il solito fuori di testa. Perché finché ci sarà qualcuno che nega l’olocausto bisogna avere l’attenzione alta e desta. Così anche per chi scrive: viva la camorra.

Sole 24 Ore “Speciale Campania”

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