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Sole 24 Ore: Io, berlina che ogni giorno cambia rotta

Chi sono? Il mio numero di matricola è Sn7500. Sono una macchina. Un’automobile. Come preferite. Non cambia nulla. Anche io, mio domando cosa sto facendo qui. Al freddo, con l’umidità che mi gocciola addosso. È stato un inverno lungo. E le mattinate sono ancora fredde. Già, dove è il qui? Linate, l’aeroporto.

Quello piccolo. Eppure, li prendo tutti qui. Sono del segmento berlina. Quasi che fossimo prodotti in serie, su misura. Ci danno anche dei nomi. Ci lavano con cura. Un rito, il più delle volte domenicale. Le carezze sull’acciaio è dolce. Credo almeno. Non lo so. Le mie di carezze, di lavaggi, sono in serie. Come quando mi hanno montato. Forse tra qualche anno cambierà. Oggi mi tocca il lavoro. Sono a noleggio. Siamo una bella flotta. Importante. A noleggio. Un certa somma di denaro per il tempo dell’uso. Lo so, vi ricorda qualcosa. Il vostro lavoro quotidiano in ufficio. Dove andrò oggi? Cambia ogni volta la destinazione. Ma un giorno sarò l’automobile di una famiglia. Vera. Sono un diesel, ma di quelli potenziati. Dalla quinta in quarta, nessun problema. Salto in avanti, ti faccio scorrere fluido, mi prendo le tue tensioni. Le mani si sciolgono sul volante. Il camion è alla spalle. Quinta. Ma la quarta potevamo sforzarla ancora. Di più. In curva. Tenendo la corsia esterna. Il cemento veloce di fianco. Ormai sicuro del diesel. Potenziato. Lo riconosco. È un cliente fisso. Quasi ci conosciamo. Ricordo la destinazione. Roma. Treno, aereo. C’è ancora qualcuno che non ci tradisce. Mi metto in moto. Guardo gli aerei. Soprattutto uno. Ha le ali slanciate, il corpo affusolato. La mattina brilla, quando c’è l’alba. E l’acqua scivola via. Non come su di me. Ho avuto paura di perderla. Durante l’estate il barile costava tantissimo. Non si sapeva più se avessero volato. Se fosse tornata. L’Australia sarebbe tornato ad essere lontana, e New York solo per lavoro. Diventava di nuovo lontana anche Londra, e nessuna vacanza in Spagna. Poi, d’un tratto, il barile era tornato basso, proprio così dicevano alcuni. Molto basso. Ora il pericolo e che volano di più? No. Tutto come prima. L’importante che sia qui, anche oggi. Il barile non ha neanche le ruote. Non può sempre mettersi di mezzo. Andiamo. Ecco, già al primo semaforo. I miei simili. Oramai li riconosco subito. Sempre le stesse strade. Le solite file. La mia, invece, di strada è sempre diversa. Almeno questo. Riconoscono anche le buche, e si consumano di meno. Un collega mi rivelò che il suo padrone si pregiava di fare i chilometri contatti. Non era stressante, certo. Una vita tranquilla. Ma costosa. Abbiamo le nostre spese fisse. Meglio di qualsiasi contrattazione nazionale. Se ci prendi, beh, al di sotto di una cifra non se ne fa nulla. Non come voi. Cioè, avete le vostre spese fisse, ma non importa a nessuno. Qualcuno con noi ci prova. Bisogna dirlo. Ma non va mai molto lontano. Gioco di squadra. Andiamo. Ci fermiamo. La colazione. Non mi sono ancora scaldato abbastanza. Tremo un poco. Non importa a nessuno. Sento anche la soggezione. Come sempre. Mi sta di fronte. È dipinta. A strisce. O quasi. Bianca e azzurra. Stanca. Le luci blu sul tetto. Certe volte mi fa ridere. Sembra che abbia una divisa addosso. Io ho un completo grigio. Componenti chimici studiati di proposito per la riflessione della luce. Qualità, ma anche sicurezza. Il mio completo regge bene le intemperie. Difficile graffiarlo. Almeno qualcuno pensa a vestirci come si deve. Mi sta di fronte. Non abbiamo la stessa potenza, eppure riescono a tenere il mio passo. Con tutti gli acciacchi che hanno. Di sicuro deve essere la mano. Ma penso che sia anche una questione di sacrificio. Di tutti i pezzi. Un tram. Ci guardiamo con simpatia. Con gli autobus un poco di meno. Ne hanno cosi tanti dentro. Tutti amareggiati. Bene gli sta. Hanno sempre voglia di toglierci di mezzo. Capite perché ci guardiamo in cagnesco in ogni dove? A chi si butta prima avanti. Questione di sopravvivenza. E siamo in vantaggio noi. Certo ci sono posti dove ci va peggio. Sydney, Francoforte, Ginevra, Stoccolma. Se proviamo a passare avanti, quasi ci mandano a rottamare. Ma siamo a casa qui. Siamo in Italia. Nessun problema. In città noi. Sulle autostrade loro, i fratelli maggiori, i camion. L’importante è esserci. Qualche volta il treno si prende una rivincita. Un passaggio a livello. Poca soddisfazione nel non poter decidere del proprio tempo. Ci preferiscono per questo. Ed anche se fossero solo duecento metri. Poi uno di voi. Attraversa le strisce pedonali guardandomi. Sembra che mi guardi proprio fisso. Berlina si, completo di classe anche. Ma siamo nella norma. Medio alta. Cosa guarda? Gli occhi, scuri. Ricordo quello sguardo. Uno di quelli che all’inizio ha pensato che fossero belli i mezzi pubblici. Insieme con la gente, belle donne. Soprattutto in primavera. Uno addosso all’altro. Nessuno si sfiora. Nessuno si guarda. È lo sguardo della nostalgia. La faccia di chi ne ha fatta di strada. Ogni giorno, tutti i giorni. Oltre cento chilometri. Di quelli che ci trattano come se fossimo un tempio. Una seconda casa. Sono rapporti speciali. Ci si veste l’uno dell’altro. Non ci sono incomprensioni. Fiducia, tanta. Ogni giorno. Avanti e indietro. Senza sorprese. Con decisione. Qualche volta con lo stereo a tutto volume. Poi, ci si comincia ad odiare. Non lo sai il perché. Succede anche a voi, giusto? Non sopporti più lo stesso odore, gli stessi suoni, la stessa manovra della chiave di accensione. La sera prima andava tutto bene. Ma non la mattina. E anche se non lo dici subito, cominci a guardare i concessionari. Forse, il giorno prima, un altro modello ti aveva emozionato la fantasia. Cosa rimane alla fine? Uno sguardo malinconico. Andiamo. La sorella minore dell’autostrada: la tangenziale. E verrebbe voglia di andare ad Est. Pretendono cosi tanto da loro. Sono sfinite. E qualche volta si lasciano andare. E ci scappa il morto. Succede. Nulla di grave, siamo in tanti. Qualcuno pensa anche in troppi. Se ho degli amici? Prati. Prati e figli. Mi portano sempre là. Concessionario, officina. Showroom neanche a pronunciarlo. Pensano che sia una cosa da donne. I motori sono maschi. Ma comprano anche le donne. Almeno scelgono la carrozzeria. Lo vedo preoccupato. La nostra casa madre sembra in difficoltà. Anche se poi, ogni sera, ci manda in TV. Ed anche Prati se ne preoccupa. È cortese da parte sua. Qualche volta esagera e dice cose strane. Che lui ci prende il pane per mangiare da noi, e che ci vuole bene. Ma che siamo in troppi. Ma non è questo il problema, è che sporchiamo. Dovremmo avere meno vizi. Parla lui che fuma un pacchetto di sigarette al giorno e si fa docce di almeno mezz’ora. Ma lo sa anche lui che non sporchiamo quando respiriamo. Certo non avere l’alito pesante aiuta, ma è quando ti cambi i panni addosso. Che hai un intimo elettrico, non toglie che i panni siano di plastica, carbonio, pellame o finto tessuto, viti, vetro, e spugna. Beh, qualcuno la usa ancora. Prati è preoccupato. Non ci possono consumare come se fossimo cioccolatini. Siamo piuttosto lo zafferano. Un poco alla volta, al massimo due volte nella vita. Ma non è andata così. Quasi quasi faccio bene a non affezionarmi. Ci sono abituato. Gli altri di meno, ma siamo troppi. Fanno come vogliono. E qualcuno si intristisce pensando alle mani del bambino che non ha mai visto, non dico adulte. Almeno adolescenti. Andiamo. Altrimenti non si arriva mai. Se mi piace il cinema? Certo. Me lo ha consigliato l’aereo a Linate. Arizona Dream. C’è la scena del pesce. Un pesce strano che sembra che esista davvero. Con due occhi da una parte, crescendo si sposta. E tutto il film si domanda se si perde in questa maniera. O si acquisisce. Quando mi guardo intorno e penso che siamo troppi, che sì, serviamo, ma così non va bene. Mi interrogo sul pesce. Se ci fermassimo, acquisiremmo qualcosa. O perdiamo qualcosa?

Sole 24 Ore “Speciale flotte aziendali”

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