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Storie Inutili

Storie Inutili di Luca Scornaienchi e Elena Rapa (Tempesta Editore)  Introduzione di Sergio Nazzaro

Hai da accendere?

Storia inutile lo scrivere, il disegnare, il dover spiegare e la necessità di spiegarsi. Storia inutile suonare, probabilmente anche sopravvivere a noi stessi, credendo che qualcosa cambierà. Storia inutile quella dei temi universali, dell’amore e della morte. Un fumatore incallito sa bene di cosa si parla: del fumo gradevole della prima sigaretta, e delle molte altre che sono necessità, sgradevole, senza aroma. Fino all’ultima nel buio della mezzanotte e si attende l’alba, per il gusto della prima sigaretta. Per sperare ancora che sa di buono il fumo.

Mentre in Italia si ascolta, talvolta e ancora, alla radio come in televisione: il graphic novel, la graphic novel, il fumetto, romanzo illustrato, libro disegnato, una definizione che non arriva mai, le storie si fanno necessità e si raccontano, usando carta penna e parole, oltre la mediocrità delle definizioni.

Il tratto di Elena Rapa rimane denso, pesante, fortemente gravitazionale da andare nel punto in cui barocco e horror vacui lasciano lo spazio bianco ad un nero leggero, uniforme, sereno nella sua densità. Un’evoluzione sorprendente, qualcuno la definisce maturità, probabilmente assenza di ansie che cercano stupore, ma lucida analisi del vivente. La narrazione di Luca Scornaienchi diventa pulita nell’accompagnare il candido nero di Rapa. Una storia qualunque, inutile, l’intestazione lo afferma. Già, storia comune, a tanti di noi. Così vera, onesta, pornografica nell’enumerazione delle perdite che non sono lamentela, ma grido disperato di abbandono. L’abbandono perché non sei più di moda, non sei sulla breccia, perché i tuoi incubi non sono in vendita per aggiustarsi con un colpo di ferro da stiro per ogni occasione. Storia banale, perché è la storia di molti di noi. Non di tutti, per fortuna. Non dei figli di puttana che rubano il tempo e l’amore. Sonny non è una sorpresa nel panorama del fumetto. E’ una conferma della difficoltà di essere, di poter produrre, di narrare semplicemente ciò che va detto a bassa voce, senza mettere un cartellino di vendita sul buco del culo per farsi applaudire in una presentazione con troppe sedie vuote in una grande città affollata.

Sonny non cerca l’acidità dell’effetto a sorpresa, se ne va fuori dai coglioni dell’underground in cui se capisci va bene, altrimenti fai si con la testa che va bene lo stesso. Sonny va alla ricerca della madre. Omaggi e riferimenti sono chiari, tessuto di una cultura vera che si ricorda sempre meno. La carta che avete tra le mani è la possibilità di un racconto altro. Che non gioca ai facili intellettualismi dei programmi di seconda serata. Non è una introduzione scritta cercando le parole per meglio descrivere ciò che è stato disegnato affinché lo capissero pure gli stupidi. Sonny è sincero perché sta morendo, forse è già morto da un pezzo. Ma non rinuncia a indebitarsi di vita. Non rinuncia a  sussurrare la tristezza immane nell’essere l’ultimo dimenticato fuori, che non sta mai nel posto giusto al momento giusto, scartato per la sua bravura. Dimenticato volontariamente, e dimentico di un mondo corretto. Anche dall’amore. Riuscire a raccontare quel respiro vuoto del ricordo di quando tutto era possibile, di quando esisteva l’emozione di una possibilità e la possibilità di un’emozione. E’ una storia inutile provare a dire come ci si sente male quando la porta si è chiusa e non è venuto a bussare più una donna, un amico, un impresario. Chi ha deciso Sonny che ad un tratto tutto doveva finire? No, scusami, non ho da accendere.

 

 

 


 

 

 

 

 

 

 

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