intervista di Marco Valerio Lo Prete
• Nelle borse europee la paura per Dubai sembra già passata. Sul futuro dell’Emirato arabo gli analisti si dividono in due fronti
Svolgimento incerto per la tempesta con epicentro Dubai: ieri Wall Street ha aperto la seduta in calo e il costo del rischio-paese dell’Emirato ha continuato a salire, mentre nelle borse europee sembrava passata la paura. L’emiro Mohammed bin Rashid al Maktoum ha parlato nel tentativo di rassicurare i mercati ma i titoli della stampa non lo hanno seguito. La notizia, per ora, non si lascia offuscare da spin e interpretazioni di sorta: Dubai World, una delle tre diramazioni finanziarie della città stato che fa parte della federazione degli Emirati Arabi Uniti, è in difficoltà e ha chiesto di poter rinviare il pagamento di 59 miliardi di dollari di debiti, circa due terzi degli 80 miliardi di debiti complessivi dell’Emirato. Chiude la Disneyland del lusso e della finanza costruita nel deserto sui resti di un villaggio di pescatori di perle? “E’ un bell’esperimento, non credo finirà”, dice al Foglio Sergio Nazzaro, consulente di un gruppo immobiliare italiano che opera anche negli Emirati. Sui suoi quattro anni da pendolare tra Roma e Dubai ha appena scritto un libro, “Dubai Confidential” (Elliot): “In queste ore mi chiamano i clienti per sapere se conviene vendere. Ma nel mezzo della tempesta, cercare di tornare al porto può essere più rischioso che stare fermi – continua – e comunque la capacità di visione degli emiratini non svanirà da un momento all’altro”. Inventiva e intraprendenza hanno spinto infatti gli sceicchi locali, al potere dagli anni 70, a puntare prima sul petrolio e poi, a partire dagli anni 90, una volta toccato il picco dei 400 mila barili di oro nero esportati ogni giorno, su un’economia che fosse quanto più diversificata. Per prime sono arrivate le grandi multinazionali – Microsoft, Dell, Reuters e Bbc – che hanno spostato lì le loro sedi mediorientali, attratte da vere e proprie zone franche da un punto di vista fiscale. A seguire è venuta l’industria del turismo di lusso. Nel 1999 viene inaugurato a Dubai il primo hotel a sette stelle, il Burj Al Arab, una costruzione a forma di vela, alta 321 metri, sorta su un’isola artificiale. Stranezze del genere, l’anno scorso, hanno convinto sei milioni di turisti a fermarsi in una città di nemmeno due milioni di anime. Contemporaneamente esplode il mercato immobiliare; un dato su tutti: nel 2008 a Dubai erano al lavoro il 25 per cento di tutte le gru del mondo. Si aggiunga la finanza e il miracolo è apparentemente riuscito: i settori non legati al petrolio, l’anno scorso, contavano per più del 95 per cento del prodotto interno lordo. “La frenetica circolazione di biglietti verdi ha contribuito a creare un clima molto positivo tra le centinaia di etnie e fedi presenti in loco – nota Nazzaro – accanto alla moschea di Dubai sorge una chiesa che ospita migliaia di fedeli ogni domenica”. Ma nel modello economico di Dubai qualcosa si è inceppato: “Dopo il collasso di Lehman sembrava che la città fosse stata risparmiata dalla crisi – dice al Foglio Christopher Davidson, docente all’Università di Durham e da dieci anni nel Golfo – tanto che stati vicini come Kuwait e Abu Dhabi espressero pubblicamente un sentimento di invidia. Contemporaneamente lo sceicco al Maktoum era visto come un visionario in tutto il mondo arabo”. Però? “Era fisiologico che la nuova benzina del Dubai post petrolio – gli investimenti diretti esteri – smettesse prima o poi di fluire. Le banche di Dubai hanno trovato sempre più difficile reperire all’estero liquidità da utilizzare all’interno del paese per i mutui. La fiducia poi è venuta giù con la progressiva discesa della Borsa”. Eppure think tank, docenti e media locali – sostiene Davidson, autore già nel 2008 del libro quantomeno premonitore, “Dubai: The Vulnerability of Success” – hanno risentito della “mancanza di trasparenza” che caratterizza l’economia di uno stato gestito da una torre d’avorio, come in un parco giochi, appunto. Ora tutti guardano ad Abu Dhabi che, secondo quanto riportava Asia News, sarebbe pronto a intervenire per sollevare Dubai dal suo indebitamento. Sarebbe il primo bail-out di uno stato intero.
• Vita, amori e miracoli di Big-Mo, lo sceicco poeta di Dubai
Niente paura: nonostante la crisi finanziaria, sua eccellenza Mohammed bin Rashid al Maktoum, sceicco del Dubai e primo ministro della Confederazione dei sette emirati del Golfo, può ancora permettersi di garantire un tenore di vita adeguato alle sue 19 creature, otto maschi e undici principesse, avuti dalle due mogli, tra cui spicca per classe e bellezza sfoggiata alle corse di Ascot, la splendida Haya, sorella del re di Giordania, Abdullah II. Il portafoglio di Sua Maestà, pur dimezzato dalle traversie subite sui mercati azionari, vale ancora 14 miliardi di dollari, importo che piazza lo sceicco al quarto posto tra i re Mida del pianeta. Per carità, anche le spese corrono: lo sceicco possiede alcuni dei più prestigiosi allevamenti di cavalli del mondo, disseminati tra Irlanda, Inghilterra e Kentucky. Ma forse è solo questione di business: l’emiro, che ha affidato al Mohammed, in sella all’Emirato da tre anni, l’ha affidata alle gru e alle escavatrici che hanno trasformato una lingua di sabbia davanti al deserto in una delle più ambite mete del turismo mondiale, tra isolotti artificiali, grattacieli che si spingono fino al cielo e campi innevati artificialmente con un consumo d’energia superiore a quello dell’intera Danimarca sotto una cupola di plastica. L’obiettivo, realizzato, era quello di creare una capitale del terziario, moderna e spregiudicata, da opporre alle industrie di Abu Dhabi, capitale comunque noiosa nonostante i tanti investimenti (non ultimo il cinque per cento di Ferrari). Nulla ha trascurato lo sceicco per raggiungere il fine: dai tornei di golf più ricchi del mondo (10 milioni il primo premio) al ma ter di tennis giocato sulla vetta di un grattacielo da 800 metri, fino agli investimenti a Las Vegas o al 20 per cento del Cirque du Soleil, in vista di un impianto stabile nell’Emirato. Peccato che questo sogno, destinato a finire per un po’ nel cassetto, poggiava su una leva finanziaria da brivido. Poi è arrivato il credit crunch e le banche d’occidente si sono accorte che non bastava la parola dell’emiro a garantire 60 miliardi di debiti anche in bond islamici. Certo, restano i soldi dei cugini di Abu Dhabi. Ma loro, non si sa con quanta soddisfazione, hanno sì annunciato un assegno da dieci miliardi per garantire la continuità dello stato. Ma hanno opposto un secco rifiuto per Dubai World: invece di far debito vendano il Mandarin Hotel di New York piuttosto che il Grand Building di Trafalgar Square. E Mohammed, per ora, ha dovuto chinare il capo, mentre Dubai si riempie di turisti per la winter season, la Ferragosto del Golfo. pupillo di Antonio Giraudo, Romy Gay, l’onere di creare la federazione di calcio più moderna d’Asia, sa che il soccer esercita un fascino irresistibile sui turisti in arrivo dall’Europa. Forse è per questo che, l’estate scorsa, ha avviato una discreta trattativa per l’acquisto del Milan. Alla fine non se n’è fatto nulla, anche perché il cash cominciava a scarseggiare, chissà. Ma che colpo sarebbe stato sfilare la squadra rossonera sotto gli occhi dei cugini-rivali di Abu Dhabi, grandi azionisti di Mediaset e del Manchester City, che invano avevano lanciato l’offerta da 100 milioni di euro per Kakà. Ma guai a giudicare l’emiro alla stregua di un ricco capriccioso. Al contrario Big-Mo – così lo chiamano i suoi sudditi – si sente soprattutto un poeta, come dimostra la ricca antologia pubblicata sul sito dell’Emirato. Ma la vera missione poetica, venata di ragionata follia, lo sceicco
• L’Aiea condanna la politica nucleare di Teheran. Le fortune degli iraniani a Dubai, “dove le donne possono sciogliersi i capelli”
Per la prima volta dal 2006 con una risoluzione votata a larga maggioranza e il placet russo e cinese (un margine di 25 a 3 con 6 astensioni) ieri l’Aiea ha censurato la politica nucleare di Teheran. L’Agenzia atomica ha condannato lo sviluppo segreto del sito di Fordo, centro per l’arricchimento dell’uranio scavato nelle montagne vicino a Qom, pretendendone l’immediato congelamento. Persino l’alfiere del compromesso, il segretario generale Mohammed ElBaradei, ha dovuto concedere che con l’Iran l’agenzia è “a un punto morto”. Per il primo ministro inglese Gordon Brown se Teheran non si ravvede “il prossimo stadio sarà rappresentato dalle sanzioni”, e la Casa Bianca ha sottolineato “l’unità della comunità internazionale”. Non è una tappa scontata, ma l’irritazione di Mosca e Pechino per le promesse mancate dei negoziatori di Mahmoud Ahmadinejad è palpabile. In un momento in cui le turbolenze interne stravolgono i consueti tatticismi internazionali, anche la crisi di Dubai fa paura all’establishment rivoluzionario. “Dubai è la nostra Las Vegas, Dubai sta all’Iran come Hong Kong sta alla Cina. Facciamo a Dubai tutto quello che non possiamo fare in Iran – spiega al Foglio un businessman iraniano – A Dubai le signore si sciolgono i capelli, affollano i centri commerciali e prendono il sole, mentre i mariti costruiscono le loro fortune”. Un quarto della popolazione dell’emirato è di origine persiana, 450-500 mila persone che hanno aperto 9.500 società e trasferito nel loro buen retiro 300 miliardi di dollari, una fuga di capitali incoraggiato dalla rovinosa gestione economica di Ahmadinejad. Gli iraniani hanno le loro scuole e sedi universitarie distaccate, come l’Islamic Azad University, innumerevoli associazioni culturali e un aggressivo Business Council che incoraggia e facilita le transazioni con l’Iran. Il suo direttore, Nasser Hashempour, dice che le sanzioni complicano la vita ma non è difficile aggirarle. Le società iraniane non possono effettuare transazioni in dollari e quindi utilizzano euro e yen. Secondo le leggi dell’emirato, le imprese straniere hanno l’obbligo di avere un partner locale che detiene il 51 per cento della società. Questi partner vengono ricompensati e poi non giocano più alcun ruolo. Negli ultimi due anni Dubai è divenuto un approdo meno amichevole per l’Iran e la bolla immobiliare ha mandato sul lastrico molti investitori persiani, ma l’export è sempre rimasto una sicurezza e basta fare un giro nei docks del porto di Jebel Ali per rendersi conto che, sanzioni o non sanzioni, Dubai resta il centro di smistamento per i beni di lusso diretti verso i negozi chic di Teheran nord o il mercato nero controllato dai pasdaran. Bastano nove ore perché un container approdi al porto di Bandar Abbas e gli empori iraniani espangano prodotti Dell, Apple, Microsoft e Kodak. Molti gruppi americani – inclusa una controllata di Halliburton – hanno per anni esportato in Iran attraverso le rappresentanza a Dubai e il giochino del partner-prestanome delle società iraniane. Qui la Cia teneva un osservatorio sull’Iran e ciò nonostante i mullah-tycoon potevano togliersi il turbante – un pettegolezzo fantasioso vuole Hashemi Rafsanjani proprietario di un resort a cinque stelle – e i pasdaran incontrare mercanti nucleari. Non esistono dati precisi, ma è sicuro che Dubai figurava in una posizione preminente nel portafoglio di investimenti della mullahcrazia iraniana. A Teheran gli occhi sono puntati al clan Larijani e come di consueto a Rafsanjani, tutti si chiedono se il brusco risveglio della diaspora di Dubai finirà per assestare un ulteriore colpo al regno traballante di “Shah Akbar” (Rafsanjani). Ma c’è anche chi sottolinea che pure i pasdaran hanno subito l’attrazione fatale di Dubai. “Gli iraniani hanno diritto a una bella vita”, disse durante la campagna elettorale del 2005 l’ex comandante pasdaran e sindaco della capitale Mohammed Bagher Ghalibaf, il segno che molti guardiani erano pronti per le inconfessabili seduzioni delle spiagge di Dubai.